Nicola Fano
Cartolina da Parigi

L’armadillo di Piano

Il nuovo Centro Jérôme Seydoux-Pathé, ridisegnato da Renzo Piano, è un armadillo in gabbia che cerca di rompere i vincoli del passato. Solo in Italia questo confronto tra storia e contemporaneità è bandito

La notizia ha fatto il giro del mondo, come merita ogni nuova creazione d’un’archistar. Poche settimane fa è stato inaugurato l’armadillo di Renzo Piano, un intervento estremamente significativo nel cuore del Centro Jérôme Seydoux-Pathé alle spalle di Place d’Italie, a Parigi. Il grande architetto ha realizzato all’interno dell’edificio storico una struttura a cupola irregolare, con travi di legno e vetrate ricoperte di scaglie di metallo che paiono, appunto, quelle di un armadillo. Tanto più che, vista dall’alto, la nuova struttura è sinuosa e sembra quella di un animale che si infili nel cuore dell’edificio antico. O che dal cuore di quell’edificio non riesca a liberarsi.

Trovare l’armadillo di Renzo Piano non è facile: è nascosto all’interno del numero 73 di Avenue des Gobelins e le foto che sono girate in rete non corrispondono alla realtà. Perché sono state scattate dall’alto o da una casa privata e per capire qualcosa bisogna pagare sei euro ed entrare. In cambio, ufficialmente vi prometteranno un’esposizione di strumenti cinematografici d’epoca e la proiezione di un film muto commentato dal vivo da un pianista, ma sappiate che, oltre a queste piccole soddisfazioni, potrete anche valutare meglio il senso della struttura di Renzo Piano: ossia non solo un armadillo, ma un armadillo chiuso in una gabbia. È questo, io credo, la metafora del progetto di Piano: una invenzione architettonica costretta nello spazio residuo di un grande edificio storico.

renzo piano Jérôme Seydoux-PathéCiò che viene da pensare, subito dopo aver pagato i sei euro, è che l’architettura d’oggi ha bisogno di trovare un rapporto di sudditanza con il passato: deve sottostare agli spazi, ai volumi rimasti o sopravvissuti. E l’invenzione non può che essere il frutto di questa mediazione o, se vogliamo, di questa sudditanza. Gabbie e galere e energie costrette sono ciò che esprimono certe architetture metropolitane di Piano: pensate all’ossessione dei tiranti del Centre Pompidou… quasi le crociere di ferro delle finestre dei carcerati. Il nuovo Centro Jérôme Seydoux-Pathé è un altro spazio costretto dai vincoli della storia che tenta di volare altrove. Senza riuscirci. L’opera dell’architetto dà proprio questo senso: la contemporaneità che confligge con la storia, come fosse un figlio che tenta di rompere il legame con un padre per crescere e, in ultima analisi, sopravvivere.

Sarebbe stata possibile una cosa del genere in Italia? Tendenzialmente no. E non perché i padri siano impietosi con i figli, ma più banalmente perché da noi ogni confronto è bandito: non ci sono fondi, energie, idee (da parte della politica, beninteso) né coraggio per mettere in relazione il passato con il futuro. Ogni energia e ogni denaro è stato già speso per altri soddisfazioni e altri privilegi. E, poi, provate a immaginare una fondazione privata (di cultura) che cerchi di sopravvivere conservando la propria storia e vendendo la propria immagine vecchia e nuova! Impossibile. Intanto, perché probabilmente un Pathé di Roma o di Milano non avrebbe avuto i permessi dalle sovrintendenze per infilare un animale ferito nelle gabbie della storia urbanistica, e poi perché nessuno investirebbe due lire per mettere a confronto passato e presente: di qua una struttura avveniristica e di là una ricca biblioteca di cinema nonché una collezione un po’ folle di proiettori e cineprese antiche.

Ogni volta che ci si spinge oltre Chiasso – direbbe Arbasino – si è costretti a misurare il distacco accumulato dal nostro Paese nel corso degli ultimi trent’anni nei confronti del resto dell’Occidente. Nessuna prospettiva culturale è stata fecondata, da noi, e di conseguenza nessun investimento economico è stato fatto; nessuna dignità hanno da noi la fatica e l’impegno per la cultura. Semmai, sono ubbie da vecchi o giochi da “intellettuali” disposti a tutto pur di non lavorare. Ciò che altrove è ricchezza e risorsa, da noi è (considerato) peso morto, spreco. Eppure, non ci crederete, il Centro Jérôme Seydoux-Pathé, oltre a essere stato progettato da un italiano, è gestito e programmato da italiani. I nostri amministratori pubblici la chiamano “fuga di cervelli”, ma poi non fanno alcunché per evitare che chi ha idee e competenze nel mondo della cultura resti in Italia. E perciò a noi altri, assetati di confronto tra storia e contemporaneo, non resta che fare una gita a Chiasso…

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