Erminia Pellecchia
Incontro con il maestro

De Simone in guerra

«Pasolini, nella sua rilettura dell’Histoire, vedeva profeticamente nella televisione il diavolo. Che cambia sempre abito per sedurre e annientare le coscienze»: il grande artista parla del suo «Combattimento e storia di un soldato» che torna al Verdi di Salerno

I disastri e l’orrore della guerra. La guerra mitizzata dai poemi, gli eroi narrati alla massa, da una parte. La guerra depauperata dal mito, i militi ignoti che muoiono in massa, dall’altra. La guerra oggi: un prodotto di massa. Combattuta non solo sui campi di battaglia, ma quotidianamente, in una società dove non esiste più il popolo, ma una massa di pecoroni ottusi, robot non più individui, manipolati dal potere. Politico, economico, religioso che sia. È il messaggio che Roberto De Simone lancia con la curiosa, straordinaria operazione di cucitura tra Il combattimento di Tancredi e Clorinda di Claudio Monteverdi e la Histoire du Soldat di Igor Stravinsky, due compositori che ama, due sperimentatori così come lo è lui, attualissimi. Nel flusso vitale della musica che li rende tali, nella continuità espressiva maestralmente architettata dal musicista e regista napoletano. Nasce così, da questo ponte lanciato tra Seicento e Novecento, Combattimento e storia di un soldato: dentro ci sono echi del Tasso e leggende russe, i cunti dei pupari e il recitar cantando, il disincantato uso del dialetto, antiche sonorità e ritmi contemporanei che suggeriscono, forzando un po’ la mano, incursioni nel rap.

foto Massimo PicaLo spettacolo, rappresentato nel 2004 al Teatro dell’Opera di Roma, torna, “scarnificato”, al Teatro Verdi di Salerno, dove sarà rappresentato in una nuova veste agile – eliminati scene e costumi – fino a domenica prossima. Sul podio Renato Piemontese, aiuto alla regia Mariano Bauduin, da sempre fido collaboratore di De Simone. Nel cast attori del valore di Raffaele Converso e Vincenzo Pirrotta, nei ruoli di cantastorie prima e, rispettivamente, del soldato e del diavolo poi. Il maestro ottantenne è instancabile, non è mancato a una prova, si è ripreso dai problemi di salute di questa estate e si concede al massimo, dimentico dei due infarti e dell’angioplastica che ha subito. Pignolo e inflessibile come sempre, primo a mettersi in gioco per avere il meglio dagli altri.

Mancava dal Verdi dagli anni Settanta, perché la scelta di Salerno per il suo rinnovato “Combattimento”?

È un teatro antichissimo, ancora un teatro, per grazia di Dio, in cui nessuno è venuto a mettere mano e fare lavori. È stata mantenuta l’acustica che il San Carlo ha perso. Rovinato dal restauro, come il Mercadante. Qui non c’è bisogno di microfoni, è perfetto per il mio spettacolo che si basa tutto sul suono e sul gesto, esalta gli attori e gli strumentisti. Sa, la voce è fondamentale in questo allestimento che è insieme antico e contemporaneo. L’altro motivo è stata la chiamata di Daniel Oren, un amico, ma soprattutto un grande professionista. Non so se nasceranno collaborazioni future, è troppo presto per dirlo. Diciamo che sto sperimentando… Non dimentichi che sono parecchio superstizioso, anticipare le cose porta male.

La critica ha parlato di opera rap.

No, per carità. Né mi piace la definizione post-moderna. Ho messo in luce, soprattutto nella seconda parte, la stilizzazione di meccanicità sia gestuale che mimica che la musica di Stravinsky rappresenta in maniera sublime. E ho utilizzato per Monteverdi gli stessi strumenti richiesti da Stravinsky: violino, clarinetto, fagotto, tromba, trombone e percussione cui ho aggiunto tastiera elettronica, chitarra e basso elettrici, indugiando a creare un tessuto di suoni e atmosfere sognanti, mai sovrastanti la voce, piuttosto un appoggio, una sottolineatura. Ripeto, mi interessa un linguaggio meccanico per esprimere al meglio la meccanizzazione che il potere opera sulle masse rendendole degli automi. Il potere, magari identificato con il diavolo che, a tempo di marcia, militarescamente, riduce gli individui non più a popolo ma a massa. La favola del soldato ha una sovrapposizione politica. Stravinsky, nella sua opera da camera su libretto di Ramuz, che io ho tradotto in italiano servendomi anche del dialetto napoletano, ha letto la storia dell’umanità, di ieri, di oggi, di domani, in maniera molto precisa e moralmente significante. Lui ha saputo coniugare oralità e follia, io ho cercato di trasmettere al pubblico questo senso con segni e gesti inequivocabili.

Siamo tutti robot. È questo il messaggio amaro che vuole trasmetterci?

Non ce lo nascondiamo. Siamo un branco di pecoroni, ci ha ridotto così il potere. Berlusconi da un lato, la sinistra dall’altra, quella che io chiamo sinistrata. Il loro operare sui media come persuasori occulti dei voleri del potere ha fatto sì che il popolo non esistesse più, fosse una massa al servizio del potere. Non c’è più discussione, dibattito. Va tutto bene per tutti. Gridiamo evviva a Berlusconi, a Renzi, agli altri pincopallino. Viva viva gridiamo. Inerti, inoffensivi. Poi c’è chi si rifiuta di obbedire ai diktat. Sono i vecchi come me, troppo vecchi per accettare l’imbroglio del potere. E, intanto moriamo nella solitudine.

Non dica così, maestro. Lei, con la sua forza resistente, con il suo impegno, è un esempio per tutti noi. Nel suo spettacolo ci sono tanti giovani; tanti giovani seguono i suoi lavori, che sono un vento fresco come quello che soffiò, nel 1976, sul Festival di Spoleto col tornado “Gatta Cenerentola”.

Sono perplesso sui giovani. È vero, al mio fianco ci sono ragazzi bravi, professionisti di grande qualità. Mi ascoltano e mi seguono. Ma quando sarò morto, che cosa accadrà? Si disperderanno. Gli altri? La gran parte dei giovani è vittima dei media, del consumismo. Il sabato sera vanno in discoteca solo a consumare birra, spinelli e altra robaccia, una massa stupida di pecoroni annullati dalla tv. Pasolini, nella sua rilettura dell’Histoire, vedeva profeticamente nella televisione il diavolo. Che cambia sempre abito per sedurre e annientare le coscienze.

Anche in questo spettacolo ripropone la magia del populismo fantastico. La speranza di salvezza viene dal ritrovare, nelle tradizioni, la propria identità?

Le tradizioni sono in agonia. Abbiamo creduto nel valore di trasmettere il senso del rituale e del mistero, quella sorta di cristianesimo pagano che era condivisione e appartenenza, in cui il nostro Sud si riconosceva come una sorta di resistenza ai poteri forti, la Chiesa, lo Stato, la camorra. Speravamo di costruire sulla cultura popolare, attendevamo che da essa potesse svilupparsi il nuovo. Invece è stata travisata dalla cultura di sinistra, tutti  professori a discutere di queste cose senza cognizione. Il risultato? L’acquisizione superficiale di tammurriate, naccherelle e balli fatti dai figli dei borghesi travestiti da popolani e la diffusione di festival inutili che sono solo spreco di danaro. Per non parlare dei neomelodici, prodotti di una cultura di massa e non di popolo, imposti attraverso i media. Avrei tanto voluto creare a Napoli un museo vivo di arti e tradizioni popolari, non se n’è fatto nulla. Questa città è allo sfascio, ormai, guidata da amministratori inconsistenti.

foto Massimo PicaLei, però, è napoletano di vecchia tempra, non può e non deve arrendersi.

Napoletano? Questa parola oggi è un abuso, non si capisce a cosa si riferisce. Certo, preferirei essere napoletano rispetto a coloro che chiamo, mi permetta il gioco con Totò, napolesi. Ma non mi sento napoletano quando vedo tutto il consumo che si fa sul nostro glorioso teatro e su De Filippo. Con Eduardo siamo stati grandi amici, ci stimavamo pur non condividendo le scelte, le nostre erano filosofie di fondo diverse, lui si rivolgeva alla Napoli piccolo-borghese e, inconsapevolmente, ha contribuito alla morte del teatro napoletano più autentico. Però queste celebrazioni inconcludenti mi fanno schifo, come mi fa schifo, dolorosamente, questa città senza più radici.

Il Forum internazionale, comunque, sta investendo sulla cultura. La Regione punta sul Mercadante, De Fusco lotta perché lo Stabile diventi Nazionale.

Per amor di Dio… Un guazzabuglio. Dietro c’è la solita logica di soldi e di potere. Una battaglia? Ecco, le rispondo con una sonora risata.

I suoi progetti prossimi, le collaborazioni col San Carlo?

In cartellone questa stagione c’è la regia della Turandot che ho focalizzato non sulla storia della principessa dispotica, ma sulla religiosità e le tradizioni popolari mai assoggettate dei popoli orientali. A maggio ci sarà lo Stabat Mater. In seguito si vedrà. Fin quando il San Carlo prima o poi non chiuderà, al pari degli altri lirici che non funzionano più. Sono deluso di tutta la lirica italiana ridotta a qualcosa di inutile per volere dei politici. I teatri non funzionano per i sindacati, non funzionano per l’inefficienza, molto spesso, dei soprintendenti, dei direttori artistici, delle équipe organizzative. Perché la logica è solo quella della raccomandazione, del politico che deve piazzare la moglie, il figlio, il nipote, il cugino. Vai all’ufficio programmazione del teatro lirico xy: tu che vuoi fare? Il direttore artistico. Bene, accomodati. Tanto ci sono le agenzie che ti procurano il tenore e il soprano e quelli arrivano. Ma chi ti arriva? E il pubblico rimane basito. Ci vuole una legge come in Francia. Chiudiamo i teatri che non funzionano e magari, così, potremo riaprirli.

Le foto dello spettacolo sono di Massimo Pica.

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