Nicola Fano
Visto nella rassegna Romaeuropa

Il rave di Amleto

L'Amleto diretto da Andrea Baracco è un capolavoro "politico" su una generazione uccisa dall'immoralità e dalla vanità dei padri. Davvero uno spettacolo da non perdere

Ci vuole soprattutto molto coraggio per mettere in scena Amleto di Shakespeare: è impossibile nascondersi che ci si deve misurare non solo con le proprie idee, ma anche con secoli di interpretazioni shakespeariane (al limite della noia e della banalità) e con l’intera memoria teatrale di ciascuno spettatore che, ragionevolmente, di Amleto ne avrà visti più d’uno, specie se è uno spettatore appassionato. Ho pensato questo quando, l’altra domenica all’Argentina, si sono spente le luci prima dell’inizio dell’Amleto diretto da Andrea Baracco su drammaturgia di Francesca Macrì e con impianto scenico, disegno luci e costumi di Luca Brinchi e Roberta Zanardo. Uno spettacolo – occorre che lo dica subito, qui – coprodotto anche dal Teatro di Roma con una decisione presa prima che io ne assumessi la carica di consigliere d’amministrazione.

Insomma, credo di aver assistito a uno dei migliori Amleto della mia lunga carriera di spettatore professionale; certamente il più affine a quella che – dopo essermi rotto la testa per tanti anni su Shakespeare – credo sia stata la spinta politica e generazionale originaria di Shakespeare e dei suoi sodali. Mi ha colpito, oltre tutto, il fatto che Andrea Baracco abbia affrontato Amleto subito dopo Giulio Cesare: proprio come fece Shakespeare, il quale usò il dramma di Bruto come palestra per affinare quello di Amleto. Ma, del resto, lo spettacolo di Baracco è pienamente un Amleto politico: uno spettacolo denuncia che arriva allo spettatore attento come un pugno allo stomaco.

Perché? Dal punto di vista drammaturgico, anche grazie a tagli sapienti e un’eccellente traduzione, il “dubbio” di Amleto diventa il dubbio di una intera generazione di figli che tenta (senza riuscirci) di contestare alla generazione dei padri vincenti (Claudio, ma anche il vecchio Amleto che costringe il figlio alla vendetta) l’inconsistenza morale dell’eredità che si trova a dover gestire. Amleto non è solo: la sua sconfitta si riverbera in quella di Orazio, di Laerte e in quella di Ofelia, secondo il montaggio drammaturgico di Francesca Macrì. Al punto che il famoso monologo «Essere o non essere» non lo pronuncia Amleto, prima di risolversi alla vendetta, ma proprio Orazio, in epilogo, dopo la morte di tutti, padri e figli, al proscenio: come a chiosare non un rovello personale ma un disastro sociale. Quello del quale noi spettatori siamo protagonisti fuori dalla platea. E gli abiti sbarazzini dei “giovani” (felpe, pantaloncini corti…) ci dicono che la scelta politica/generazionale non è causale ma assolutamente voluta. C’è qualcosa di ciò che Orson Welles fece per Macbeth, in questa drammaturgia: lo slittamento di una battuta nel corso del testo (per Macbeth era il monologo di Lady Macbeth sulla negazione della propria maternità) fa sì che lo spettatore non possa scansare il dramma di un singolo (Amleto, Macbeth) ma debba viverlo su di sé, diventandone giocoforza co-protagonista.

amleto baracco3Detto questo, che è già quasi tutto, c’è da aggiungere che le tre ore di spettacolo cui ho assistito rappresentano quasi una summa di quanto di meglio il teatro contemporaneo abbia prodotto in questi anni: l’apparato scenico è semplice (due serie di quattro quinte di plexiglas opaco e un corpo centrale dello stesso materiale, tre tavoli di metallo su ruote) ma perfettamente modulabile. A dimostrazione che non servono miliardi per fare grande il teatro: bastano le idee. Sugli elementi di scena e sui corpi degli attori vengono proiettate immagini (poche, molto suggestive e pertinenti) a definire ambienti o stati d’animo: un modo felice di reinterpretare una moda che sta diventando fin troppo ripetitiva, sui nostri palcoscenici. Lo stesso si deve dire dell’apporto sonoro che talvolta richiama echi ossessivi da rave party: un modo come un altro per cercare quell’identità che i padri non hanno dato ai figli.

Ma ciò che in fondo colpisce di più è la bravura degli attori. A cominciare da Lino Musella che gioca con Amleto con una padronanza fuori dal comune, passando dalla rabbia alla delusione al paradosso (addirittura con una sorta di citazione dal Totò di ‘A livella nella scena del cimitero). Tutti, comunque, sono da citare: Eva Cambiale che fa Gertrude, Paolo Mazzarelli che fa Claudio, Michele Sinisi che fa Orazio, Andrea Trapani che fa Polonio, Woody Neri che fa Laerte e Livia Castiglioni che fa Ofelia. L’entusiasmo e il rigore che questi giovani e già maturi attori hanno saputo offrire al pubblico è quel che mi rimarrà più impresso, al pari della dozzina di grandi trovate registiche (una per tutte: è bellissima la scena del duello finale tra Amleto e Laerte con i due personaggi che percuotono rabbiosamente due lastre di metallo con delle mazze da baby gang mentre dall’alto una colata di inchiostro nero istilla in loro la morte): tutto nel segno di una piena continuità con la grande tradizione del teatro italiano di regia e di attori che va da Strehler a Castri. Ecco, Andrea Baracco si inserisce pienamente in questa scia portandone avanti il confine creativo.

Insomma, spero davvero che questo Amleto, per ora visto tre giorni a Roma, possa avere una lunga, lunghissima vita. Per il bene del pubblico.

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