Anna Camaiti Hostert
Lettera dall'America

Occidente senza sogni

L'orrore dei criminali dell'Isis usa gli strumenti dell'immaginario occidentale. L'unica arma di difesa è la tolleranza. Ma rese viva attraverso il progetto di un nuovo sogno...

Abbiamo ancora negli occhi l’orrore della decapitazione di James Foley (nella foto) e di Steven Sotloff. Un atto brutale, feroce e senza giustificazione di alcun tipo.  A cui reagisce un Obama tirato per la giacca, riluttante ad entrare in un conflitto che si preannuncia molto complicato e difficile da gestire. E tuttavia la situazione richiede risposte precise. La politica estera della Casa Bianca fino ad ora era stata contraddistinta da un rifiuto della guerra a tal punto da essere stata accusata di adottare una strategia ondivaga e indecisa. Per molti è un segno indicativo della debolezza della presidenza Obama, per altri dell’Occidente in generale. Le immagini che hanno fato il giro del mondo richiede però una presa di posizione che sbaragli quell’ottica, senza semplificare i termini del problema. E che sia il contrario della logica aberrante dei terroristi secondo i quali quella scena – la medesima nei due casi – riveste un significato ben preciso. Che tuttavia è andato nella direzione opposta a quella da essi auspicata. Perché non è riuscito a comunicare un mondo alternativo a quello che essi tentano di combattere.

In quei video, infatti, ci sono già tutti gli elementi per comprendere come la minaccia che viene rivolta al mondo occidentale venga dal suo interno e non dal di fuori. Qualcuno ancora sembra infatti pensare che esiste davvero quello scontro di civiltà di cui si parlò con insistenza dopo l’11 settembre, richiamando il famoso saggio di Samuel P. Huntington dall’omonimo titolo. Invece non è così. I video mandati in onda dai terroristi dell’Isis mostrano i giornalisti americano e inglese in ginocchio, inermi alla totale mercé del loro assassino in attesa di essere giustiziati: sono vestiti di arancione con la stessa divisa dei prigionieri della base americana di Guantanámo. Il loro boia invece in apparente contrasto con i prigionieri, è in piedi accanto a lui ed esibisce tutto il suo potere. È completamente vestito di nero, con la faccia coperta, con un coltello in mano e manda un messaggio minaccioso agli americani in perfetto accento inglese. Sullo sfondo un deserto sterminato a perdita d’occhio, tipico del paesaggio mediorientale di quell’area. Queste notazioni, che a un primo impatto possono sembrare marginali o di secondaria importanza, sono state studiate nei dettagli e costituiscono viceversa elementi che hanno richiesto cura e attenzione dei particolari e una padronanza assoluta del linguaggio dei mezzi comunicazione di massa. Almeno in teoria in apparente contrasto con il messaggio di rifiuto di un elemento essenziale ed essenzialistico della cultura occidentale: la tecnologia.

In più, di fronte a queste immagini, solo superficialmente basate sui contrasti, non possiamo fare a meno di andare con la memoria ad altre immagini lontane nel tempo e nel significato. Quelle di un classico della storia del cinema, Lawrence d’Arabia, dove le due figure di Lawrence e di Sherif Alì, in questo caso amiche tra di loro e interpretate rispettivamente da Peter O’Toole e da Omar Sharif, riempiono lo schermo in un contrasto di colori, ma non di intenti e avvinghiano gli spettatori alla sedia e alla loro storia comune. Sullo sfondo, anche in quel caso, il deserto, altro personaggio del film e cuore di un immaginario collettivo che lo lega indissolubilmente alla cultura mediorientale. Ma lì nessuno ha mai messo in dubbio che l’amore di Lawrence per il paesi arabo-islamici fosse il prodotto di un “esotismo” che ha sempre affascinato l’Occidente che peraltro l’ha inventato e particolarmente una potenza coloniale come l’Inghilterra.

barack obama4Edward Said nel suo Orientalism ha spiegato assai bene e in dettaglio come l’immagine dell’esotismo della cultura arabo-islamica creata dalla cultura europea sia il prodotto di una sorta di imperialismo occidentale che relega l’altro in un universo che può controllare e dirigere. E che all’uopo può trasformare in un potenziale terrorista da espellere quando ce n’è bisogno. Ma allora sposando questi criteri, e mi sembra che l’immagine in questione li rifletta in pieno, il terrorista dei video dei nostri giorni non si relega da solo entro una cornice di esotismo e di fascino del mistero, (figura ieratica un po’ alla Bin Laden, tutto vestito di nero e con il viso coperto), divenendo il tipico stereotipo prodotto della cultura occidentale, proprio quella stessa che egli vuole combattere ed espugnare? Se questo ragionamento ha una sua validità, allora la minaccia viene dal di dentro e non da un corpo estraneo all’Occidente. E dunque come si può rispondere a questa forma di autodistruzione ormai nota e teorizzata in passato anche da Nietzsche? Cosa farà la cultura occidentale, o meglio dovremmo dire le culture occidentali, di fronte allo specchio scuro dei sensi di colpa di un colonialismo rapace e senza scrupoli?

In alcuni editoriali recenti di grandi quotidiani italiani si tende, a mio parere erroneamente, a riproporre una contrapposizione di mondi, una denuncia del fallimento del multiculturalismo,  rischiando di spostare l’attenzione da un problema tutto interno alla nostra cultura e alla nostra identità, ad uno fuori di essa, come se ci fosse un nemico esterno, estraneo a noi. Senza accorgerci che così, come delle crisalidi di farfalle imbalsamate ci trafiggiamo con lo spillone della storia solo per esporci all’osservazione fredda e impassibile di spettatori anaffettivi. Come se la nostra ricchezza fosse data una volta per tutte e non fosse stata invece il prodotto di una continua contaminazione tra culture capace di creare quell’eccellenza di cui tanto andiamo fieri. Questo errore rivela tutta la nostra incapacità di guardarci dentro. È la forma di quella che il filosofo Mario Perniola ha chiamato la “malinconia europea” parafrasando una terminologia freudiana. Cosi facendo, infatti, si perde di vista quello che potrebbe essere l’obiettivo di una possibile soluzione, se di soluzione si può ancora parlare.

Perniola ha parlato della perdita di quella vocazione all’eccellenza che ha caratterizzato la cultura europea dal mondo greco in poi e della perdita dell’autorevolezza del nostro sapere, autorevolezza scomparsa insieme alla contestazione dell’autoritarismo. Specie durante gli anni che vanno dal ’68 in poi. Ciò, secondo il filosofo, ha dato luogo alla piattezza dell’era della comunicazione, una notte dove tutte le vacche sono nere e «che induce chi mira  all’arduum et difficile quasi a vergognarsi delle proprie aspirazioni e a nascondersi dietro l’ultima idiozia sostenuta dalle ricerche di mercato. In Europa non c’è più posto per Faust (e nemmeno per Don Juan)! La condanna dell’ammirazione che Descartes considerava come la passione più forte, segna la fine di una civiltà che per millenni ha fatto del riconoscimento sociale dell’eccellenza una delle proprie basi». Ma allora proprio sull’onda di queste considerazioni, quali possono essere i provvedimenti da adottare?

Innanzi tutto, come ha sottolineato Ezio Mauro in un recente editoriale di Repubblica, bisognerebbe rendere i gangli della nostra democrazia più forti e più sentiti da parte della maggior parte dei cittadini che sempre più invece si sentono abbandonati dalle istituzioni e tendono a non avere fiducia in esse. Questo diviene un circolo vizioso che ci rende indifferenti, particolarmente deboli e indecisi sul da farsi. In primis sarebbe opportuno restituire credibilità al nostro sistema educativo che è stato abbandonato a se stesso assieme a  quello giuridico-politico la cui legittimità appare sempre più compromessa. Inoltre bisognerebbe che, in un quadro di legalità diffusa e condivisa, ci fossero delle regole cui obbedire e che da ognuno, da qualunque parte venga, siano rispettate proprio perché ogni cittadino le sente proprie. Sì, Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera ha ragione quando scrive che il multiculturalismo è fallito. Ma non per i motivi che egli adduce, cioè per l’incompatibilità delle culture a convivere. Questo infatti, necessariamente presupporrebbe non solo che si parla di culture diverse tra di loro, e non è questo il caso del rapporto tra l’Occidente e l’Islam, ma anche che tra di loro esiste una gerarchia Mentre il dato fondamentale rimane quello della tolleranza. Questo è l’unico discrimine. Abbandonare questo criterio sarebbe un errore che snaturerebbe esattamente quelle che rivendichiamo come nostra peculiarità.

Nell’America del melting pot il fallimento è avvenuto proprio perché il canone dominate WASP (White Anglo Saxon Protestant) ha esercitato grande violenza sulle culture altre cercando di ribadire la propria superiorità. Non ne ha tollerato la diversità. E alla fine sotto la spinta dei movimenti per i diritti civili è crollato irrimediabilmente. Certo, anche il multiculturalismo, a esso seguito, basato sull’idea della semplice convivenza delle culture è fallito, solo perché non c’è stato nessun contatto tra di loro e non è stato fornito nessuno strumento universale e condiviso di integrazione. Questo vale per i neri che dopo la segregazione hanno continuato a vivere nei ghetti, senza servizi, senza un sistema educativo adeguato e preda di emarginazione e di alienazione. E con divisioni di classe che si sono allargate nel tempo a dismisura. E questo è accaduto alla minoranza ispanica che non avendo imparato bene la lingua inglese non è riuscita a integrarsi nel tessuto sociale. Pertanto questi gruppi etnici sono rimasti separati e si sono create delle sacche di isolamento che li hanno marginalizzati ancora di più.

Chissà se invece, oltre a regole condivise e partecipate, un processo di transculturazione, cioè di porosità delle culture basato sul dialogo e sulla contaminazione tra di esse potrebbe garantirne la convivenza? A differenza di quello che ritiene Galli della Loggia credo però che la forza del sogno, e quello americano è riuscito a smuovere le montagne, sia ancora un elemento trainante, perché capace di suscitare speranze, desideri e passioni. E forse di questo le nostre società hanno ancora bisogno.

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