Vladimiro Bottone
Racconti del peccato/23

Giulio e Anna

Nella quotidianità, Giulio ed Anna erano due persone qualunque. In segreto li distingueva la necessità di erodere continuamente il limite. Quindi era scontato che approdassero alla dimensione delle gang-bang, quella più cruda

Giulio ed Anna formavano una coppia stabile e sterile. Fin dagli anni Ottanta erano stati degli antesignani dell’erotismo promiscuo: inserzionisti su riviste hard, esibizionisti su greti di torrenti segnalati dal tamtam dei confratelli. Già da fidanzati, peraltro, Giulio lasciava che Anna – minuta, ossigenata, preda naturale – venisse posseduta da certi poderosi giovanotti. Cosa li differenziava da Giulio, a parte la facilità senza troppi psicologismi dell’erezione? Un altro modo di porsi rispetto al sesso, fondato sull’essere attivi. Nella quotidianità, Giulio ed Anna erano due persone qualunque. In segreto li distingueva la necessità di erodere continuamente il limite. Quindi era scontato che approdassero alla dimensione delle gang-bang, quella più cruda. Se nel triangolo maschio-femmina-maschio potevano ancora sopravvivere delle parvenze di seduzione e galanteria, nella gang ogni residuo di eredità cortese era precluso da una sorta di ritualità etologica.  La gang ha natura tribale. Un gruppo di maschi, costituitosi intorno ad un individuo leader, accerchia l’unica femmina e la possiede in batteria. Il compagno delle donna, dal canto suo, finisce emarginato in una penombra voyeuristica sempre più insignificante. In quelle circostanze Anna veniva ghermita da un paio di braccia dopo l’altro e sballottata come una bambola.

Per tutti gli Ottanta si susseguirono queste esperienze tumultuose e ripetitive. Atleti del sesso, squadre di calciatori dilettanti, gladiatori veri o presunti che sdrucivano le lenzuola dello scannatoio rimediato all’ultimo minuto. Anna era il remo di una galera. Agli ordini di un capo-voga la ciurma di cinque, dieci elementi pompava fino a farsi, a farle scoppiare il cuore. Intimidito e scombussolato da quelle rappresentazioni di aggressività organizzata, in cui le espressioni scurrili dirette ad Anna lo colpivano come pallottole di rimbalzo, Giulio si ritraeva nell’ombra. Senza neanche il coraggio di masturbarsi (lo avrebbe fatto più tardi, a casa, sul corpo esausto di lei).

La gang, d’altra parte, realizzava appieno le fantasie di Anna, la sua vocazione emersa al tempo del collegio. Tempi duri, tempi di scoperte. Quando le si era rivelato che il piacere, per lei, sarebbe risultato sempre fuso alla sopraffazione ed alla mortificazione. Tanto più apertamente inflittale, tanto più intensamente goduta. Tutte colpa di quelle due compagne di camera, leggermente più crudeli della media umana. Ecco: nel corso delle sue maratone erotiche Anna riassaporava che significa venire disprezzata. Non più per i suoi seni smunti, come all’epoca della scuola, ma per il suo sesso insaziato.

Gli epiteti con cui quegli sconosciuti la gratificavano e la animalizzavano penetravano in lei fino al midollo. Tutto senza nessuna elaborazione mentale, tranne la secreta speranza che quei cinque, dieci maschi si rivelassero macchine robotizzate ad energia perpetua, in grado di farla morire di piacere. Perché, se fosse sopravvissuta, sarebbe ricominciata la terribile solfa di tutti i giorni: loro due, marito e moglie. Giulio e Anna. Soli (tutt’al più, un giorno, avrebbero adottato un barboncino o un altro animale meno impegnativo).

Per scongiurare un simile stato d’animo erano disposti a rischiare. Dunque a riambientare il loro film in un set esotico. Né l’uno né l’altra si consideravano dei viaggiatori; la loro indole era fondamentalmente stanziale. Quei rari spostamenti ad ampio raggio avvenivano sempre alla ricerca di qualche eccesso che scongiurasse l’assuefazione ed il calo delle sensibilità erotica.

La settimana a Malindi, per esempio. Quella volta, la prima e quindi la migliore, avevano alloggiato in un resort sull’Oceano Indiano, autosufficiente e distante del centro abitato. Inoltre avevano scelto l’indipendenza di un cottage, in vista di sviluppi che imponevano un minimo di discrezione. Giulio ed Anna facevano il bagno a orari fissi. Con l’alta marea, quando l’oceano ricopriva i cento metri di barriera rimasta in secca. Niente snorkeling, solo poche bracciate cautamente esplorative. In quelle occasioni Anna, con un costume intero sgambato e scollatissimo, faceva il suo defilé per i vialetti del giardino tropicale. Un lento percorso cadenzato dalla presenza di manutentori tuttofare, camerieri, giardinieri. Uno specialmente sembrava inamovibile: paziente come un animale preistorico innaffiava la stessa, rigogliosa buganvillea con la sua proboscide di gomma.

Anna li passava – e ne veniva passata – in rassegna. Alla vista delle gambe affusolate e delle sua schiena lattea i loro occhi brillavano come cristalli impastati in un arenile vulcanico. La spiaggia dove loro bazzicavano, viceversa, era di sabbia chiara ed ultrafine. Lì avevano familiarizzato con un giovane cuoco del villaggio: Ahmed. Parlava un inglese pidgin, imbastardito con un gergo semi-dialettale italiano. Ahmed li aveva messi in guardia dai beach boys, che popolavano la parte libera della spiaggia.

«Beach boys mala gente. Gente stronza».

Anna, languida sul lettino, aveva avuto tutto l’agio di soppesarlo. Carino, con quella testa crespa che faceva venire voglia di accarezzarla. Dinoccolato, altissimo, con quell’andatura ulteriormente elasticizzata dalle suole in gomma alte due dita. Un po’ timido, forse, restio com’era a sfilarsi, lì sulla spiaggia, la camiciola arabescata che gli penzolava fuori dai jeans. Nel denudarsi aveva scoperto la fibbia plateale di uno spesso cinturone. Un dettaglio stimolante, per Anna. Nel complesso si poteva dire che avevano simpatizzato, che erano tutti consapevoli di come sarebbe andata a finire. Restavano indeterminati il dove e il quando. Il momento arrivò la quarta sera. Giulio e Anna si erano trattenuti di proposito a passeggiare nelle zone più defilate del parco (avevano scelto la stagione secca, oculatamente. Dunque nessun pericolo di zanzare). Ahmed, una t-shirt bianca dal viottolo in direzione dell’oceano, si può dire che lo evocarono con la forza del desiderio e della paura. La lingua del ragazzo era più sciolta del solito, forse aiutata da un goccio di alcol. Con una certa disinvoltura propose di bere qualcosa nel suo alloggio di servizio.

Anna si era conciata come per uno struscio in riviera: abito con spacco, calzari stringati sui polpacci in tensione. Giulio seguiva con la sua patetica tenuta da vacanziere italo-equatoriale. Il pied-à- terre era sostanzialmente un capanno, quasi a ridosso del muro di cinta. Ahmed fece strada come un vero padrone di casa.

L’accendersi della lampadina penzolante dal soffitto rivelò, agli occhi di Anna e Giulio, il pubblico dei defilé lungo il parco. Almeno sei, sette ragazzi. La situazione mimava un agguato. Anna reagì nel modo migliore: con un sorriso venereo, la promessa di accoglierli tutti. Il primo fu Ahmed. Poi gli altri, secondo un indecifrabile ordine di precedenze. Poi tutti insieme. Poi da capo in fila, senza fine.

Giulio e Anna, al di fuori dell’oltranza sessuale, osservavano le regole della loro civiltà. Anche nella promiscuità si premunivano con le necessarie cautele, tralasciate solo in via eccezionale. Una di quelle volte fu a Malindi. L’Occidente, allora, non sapeva. E poi la confezione di profilattici, che lei srotolava con un’abilità da fata,  si era rivelata insufficiente rispetto alla foga, e al numero, dei credenti musulmani. La malattia si conclamò agli inizi degli anni ’90, il tempo della glaciazione per gli  occidentali libertini. Giulio si salvò solo perché, ormai da tempo, si limitava a masturbarsi sul ventre di Anna.

Fu così che Giulio rimase solo. Era fatale. Il limite era stato varcato da una massa di occidentali la cui esistenza aveva luogo solo per sintetizzarsi nelle stringhe di immani file anagrafici. La traccia più rilevante del loro passaggio era stata il peccato, la violazione tabù invalicabili. Appunto per questo bisognerebbe avere pietà di quelle esistenze, nella loro interezza. Provare pietà. Sentire pietà.

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Vladimiro bottoneVladimiro Bottone è nato a Napoli e vive a Torino. Ha finora pubblicato cinque romanzi. Il sesto uscirà per Rizzoli nel 2015. Collabora con il Corriere della Sera e L’Indice dei libri del mese

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