Andrea Carraro
Uno scrittore alla Biennale cinema

Quattro giorni a Venezia

Dalla sorpresa per la riuscita dei film italiani alla signora che colleziona autografi (e non vede i film); dai tubi rotti alla pioggia a catinelle. Un resoconto un po' particolare dei segreti della Mostra

Non sono del tutto nuovo del Festival di Venezia. C’ero già stato esattamente 20 anni fa, quando Il branco di Marco Risi, tratto da mio libro, venne presentato in concorso. Allora però ero dall’altra parte della barricata, fra i protagonisti, fra gli ospiti della Mostra, e l’angolo di osservazione dell’evento era pesantemente condizionato da tale circostanza. Oggi sono qui da spettatore, in vacanza per così dire, in compagnia di mio figlio Giacomo, maggiorenne da pochi giorni (altrimenti non sarebbe stato ammesso alle proiezioni), entrambi ospiti di una cara amica in uno splendido palazzetto antico che si affaccia sul Canal Grande, non lontano da San Marco.  Insomma, lo stato d’animo di oggi è sereno e rilassato, mentre allora il mio fragile organismo reagiva alla tensione somatizzando assai.

anime nere munziArriviamo in una bella giornata di sole. Fa caldo parecchio anche sull’affollato traghetto che ci porta dalla stazione alla nostra fermata di fronte al prestigioso Hotel Danieli. La mia amica ci accoglie con tutti gli onori e ci fa strada verso casa tra frotte di turisti che sciamano in ogni dove. Dal salone e dalla stanza da letto possiamo godere di un panorama mozzafiato sul Canal Grande con l’isola di San Giorgio Maggiore proprio davanti e la Giudecca un po’ più a destra. In serata assistiamo, nella struttura temporanea del Palabiennale (i biglietti per le proiezione pomeridiana in Sala Grande erano esauriti) alla proiezione di due film in concorso. Il primo è l’americano 99 Homes, di Ramin Bahrani, iraniano di origine, che a dispetto di qualche critica negativa uscita sul web, è un film potente, onesto, recitato molto bene daAndrew Garfield, un disoccupato sfrattato che deve badare al figlio e alla madre, e da Michael Shannon, un impresario immobiliare senza scrupoli che si occupa di vendere le case pignorate dal governo lucrandoci parecchio, ben oltre i limiti della legalità, esercitando minacce e ricatti. Il tutto a Orlando in Florida, dove la crisi ha colpito duro e molte famiglie, finite sul lastrico, sono state gettate letteralmente in mezzo alla strada. Dietro la linda facciata delle belle casette immerse nel verde si sta in realtà consumando una tragedia economica fra le più devastanti della storia americana. Il film è duro, a tratti spietato, non lascia allo spettatore spiragli di riscatto e di speranza. I “buoni”, gli umiliati e offesi, le vittime della società per salvare se stessi si trasformano in carnefici e il loro tardivo pentimento non basta a dissipare la greve atmosfera di abusi e di cattiveria sociale che spira per tutto il film. Di seguito c’è il primo film italiano in concorso, Anime nere, di Francesco Munzi: un film tragico (nella foto), notturno, che racconta una spietata lotta fratricida fra due famiglie calabresi legate alla ‘Ndrangheta.

Insomma un inizio assai promettente per le nostre quattro giornate di Festival, che abbiamo fatto in modo da far coincidere con le tre pellicole italiane in concorso. Ce ne torniamo contenti nella notte a Venezia aspirando dalla prua del traghetto l’odore inebriante del vento e della laguna. «Hai visto – faccio a mio figlio – che non bisogna essere prevenuti sul cinema italiano…», «Beh, è solo l’inizio! Vediamo gli altri due…». Il ragazzo è venuto su maledettamente americanofilo e snob, mi chiedo perché. Quando arriviamo ai nostri principeschi alloggi, la prima doccia fredda. Non c’è l’acqua. La mia amica è imbarazzatissima e più esterrefatta di noi. «Non è mai successo!», ci fa. «Ma vedrete che domani chiamiamo un idraulico e risolviamo tutto». Peccato che l’indomani è sabato e durante il weekend non si trova un idraulico manco a pagarlo in dobloni d’oro. Ci rassegniamo a farci il caffè con la minerale e a lavarci con i secchi d’acqua che andiamo a caricare a una fontanella poco distante. Non è il massimo del confort, ma pazienza, ci arrangeremo.

Di giorno ce ne andiamo un po’ in giro per la città, la mia amica ci fa da Cicerone per campi, campielli, Sotopòrtego (i passaggi tra le Calli ricavati eliminando porzioni di case) Corti, Rii, canali angusti odorosi di muschi e fogna, ponti famosi e meno famosi, sconosciuti ponticelli. Lei lavora da alcuni anni a Venezia, è appassionata d’arte e architettura, e ne conosce anche i più nascosti recessi, lontani dal martellante e ininterrotto flusso turistico del quale non può fare a meno di lagnarsi. La ascoltiamo, io e Giacomo, a bocca aperta. Facciamo anche un giretto in gondola. Mio figlio resta colpito soprattutto, dapprincipio, dalle regole di navigazione, che a un occhio poco attento possono sembrare approssimative o addirittura assenti, ma che invece rispondono a una rigorosa segnaletica, con sensi unici, divieti di accesso, limiti di sosta, ecc. La normativa prevede che i natanti a motore tengano la destra, a parte poche eccezioni. Mentre le barche a remi devono navigare a sinistra affinché il poppiere, con il remo a destra, possa vogare e fare manovra. Ci divertiamo parecchio davanti al cosiddetto Ponte delle Tette, a Carampane, l’antico quartiere a luci rosse ai tempi della Repubblica di Venezia. «Le signorine affacciate sul ponte adescavano gli uomini mostrandogli il seno nudo – ci spiega la mia amica – ecco perché si chiama così. Pare che ciò rispondesse a una legge della Serenissima che aveva lo scopo di trattenere gli uomini dal peccare contro natura».

al pacino veneziaIl pomeriggio, mentre noi grandi ci facciamo una pennica salutare dopo la sgroppata mattutina sotto il sole, Giacomo torna al Lido per spararsi da solo un paio di film in Sala Grande, fra cui quello, attesissimo, di Al Pacino. Lo raggiungo verso le cinque del pomeriggio e mi metto ad aspettarlo davanti alle biglietterie, di fianco al Palazzo del Cinema, dove è stato allestito una sorta di salotto all’aperto sotto un discontinua copertura di assi da cui filtrano fasci infocati di sole. Mi guardo il passeggio seduto sugli scomodissimi e bianchi divanetti di design in vetroresina. Il sole è ancora forte e fa un caldo boia che fa sudare. A un certo punto mi si siede accanto una cicciona sbuffando rumorosamente, la quale immediatamente attacca discorso.

“L’ha visto?”

“Chi?”

“Come chi? Al Pacino!”

“No, sono arrivato adesso…”

“Ma scherza? Non ha visto Al Pacino? È arrivato in motoscafo… Un uomo, un uomo speciale… Un vero divo… Mica come quei divetti di oggi con la puzza al naso… Salutava tutti, come se fosse uno qualunque capisce, uno di noi… Al mi fijiol ci ha fatto anche l’autografo…”

“Ah, che bello!”

“Davvero… Che emosion, sono ancora tutta scombussolata! Ah, eccolo, eccolo, Manuel,  el mi’ fijiol, Manuel, Manuel, vieni qui… Ecco, accomodate qui vicino al signore…”

Il fijiol è la fotocopia della mammina, peserà cento chili, e accomodandosi fa traballare il divanetto.

“Fai vedere al signore la dedica…”

Me la mostra tutto orgoglioso su un quadernetto sciupato, mentre spazzola un cono gelato. Chiedo ai due se hanno visto il film con Al Pacino.

“Ah, no, il film no… A noi ci interessava questo! – fa il donnone, indicando il quaderno. – Adesso ce ne potemo anche tornare a casa!”

In serata io e Giacomo, ancora al Palabiennale (che ha orari più consoni ai miei ritmi e anche prezzi più contenuti rispetto alla Sala Grande) assistiamo alla proiezione di altri due film. Il primo, The Cut, di Fatih Akin, è un road movie che attraversa mezzo mondo (Turchia, Cuba, Stati Uniti…, ) e racconta la storia di un armeno sfigatissimo sopravvissuto al genocidio del suo popolo, condannato ai lavori forzati dall’impero Ottomano durante la Prima Guerra Mondiale, che poi si imbarca alla ricerca delle figlie gemelle, attraverso l’oceano fino a Cuba e agli Stati Uniti… Una sorta di spettacolare “Chi l’ha visto” e, per chi lo ricorda, “Carramba che sorpresa!” o altri programmi affini, ripetitivo e ridondante, durante il quale mi assopisco un paio di volte.  Il successivo, Hungry Hearts di Saverio Costanzo, ispirato al romanzo Il bambino indaco di Franzoso è uno splendido thriller psicologico alla Polanski. L’attrice coprotagonista Alba Rohrwacher, che interpreta il personaggio di una vegana fanatica, disturbata, psicotica, estenuata fisicamente, offre una prova d’attore straordinaria. Il film, ambientato a New York, racconta la storia d’amore tra l’italiana Mina e Jude (Adam Driver). I due si conoscono accidentalmente in una toilette di un ristorante cinese: strepitoso e comico l’incipit coi due protagonisti che non riescono più a uscire dal bagno per via della porta che s’è incastrata, dove l’uomo ha appena avuto un pestilenziale attacco di diarrea. Mina resta incinta, la coppia si sposa e subito la situazione precipita a causa del fanatismo vegetariano di lei. Dopo un consulto clandestino con un dottore, il padre si rende conto che il neonato è malnutrito e rischia ritardi della crescita con gravi danni neurologici. La vicenda da commedia sentimentale trascolora in thriller al cardiopalma: tra i coniugi scoppia una guerra, alla quale partecipa anche la madre di lui, che sfocerà in tragedia. Un film duro, originale, dai ritmi serrati, assai ben girato, che non giudica, inedito nella nostra produzione, che incontra anche il gusto difficoltoso di Giacomo. Durante il solito notturno ritorno nell’affollatissimo traghetto per Venezia, confessa: «Beh, mi sto ricredendo sul cinema italiano… I due visti finora sono uno meglio dell’altro!», con una insperata coda di amor patrio: «Secondo te, papà, possiamo vincere anche il Leone d’Oro?».

elio germano leopardi1L’indomani c’è l’attesissimo Il giovane favoloso di Mario Martone sulla vita di Giacomo Leopardi interpretato dall’attore Elio Germano che, giunto in motoscafo al Lido, ha offerto ai fotografi e ai cameramen un pugno chiuso che farà molto discutere suscitando adesioni ma anche ironie e sdegnate ripulse.  Attorno alla Mostra – nei traghetti, davanti al Palazzo del Cinema, nei bar, alle biglietterie, nei crocchi spontanei lungo le strade adiacenti- tutti che pontificano sul film di Martone, anche se nessuno ancora l’ha potuto vedere, tutti ostentano una sicurezza da letterati discettando di Leopardi e di come senza meno sarà stato tradito dall’attore e dal personaggio filmico. Mi viene in mente quel verso di una canzone di Rino Gaetano che faceva: «Mio fratello è figlio unico perché non ha mai giudicato un film senza prima, prima vederlo!».

Eppure anche Il giovane favoloso, terzo film italiano in concorso, ci sembra assai ben fatto, specie nella seconda parte, quella del soggiorno napoletano del poeta di Recanati, ormai molto provato nella salute, diventato  una sorta di gobbuto mostro  da baraccone che viene sbeffeggiato continuamente dalla gente e perfino a volte trattato come un pericoloso appestato. Splendide le immagini del Vesuvio eruttante nella notte e la visita del poeta a un bordello in oscure grotte sotterranee popolate di donne discinte e ospiti che lo deridono e lo svillaneggiano… A un certo punto, verso i tre quarti della pellicola, scoppia un violentissimo temporale e quasi non si riesce più a sentire il sonoro del film. Sotto i tendoni della tensostruttura del Palabiennale cala repentinamente la temperatura: chi può indossa giacche e giacconi, ma la maggior parte degli spettatori, noi compresi (in ciabattine infradito e magliette a maniche corte), colti di sorpresa dal mutamento repentino del tempo, batte i denti e pensa con preoccupazione al ritorno. Quando usciamo dalla sala, la temperatura è scesa di 15 gradi, allora subito rientriamo nella zona coperta finché un addetto della Mostra non ci fa segno di sloggiare. Un signore attempato in calzoncini e Lacoste, che sembra appena uscito dalla spiaggia, protesta e si becca questa risposta stizzita rivolta a noi tutti: «Mi dispiace signori miei, se aveste letto le previsioni nei vostri aggeggi elettronici o in tv e ovunque, disponibili da 4 giorni, vi sareste attrezzati meglio e adesso evitereste di protestare». Per qualche minuto pensiamo di pernottare al Lido, nonostante i prezzi proibitivi degli alberghi e la difficoltà di raggiungerli visto che al centralino dei taxi non risponde nessuno o suona occupato. Finalmente un altro addetto, più umano del primo, ci mette a disposizione un po’ di sacchettoni della mondezza da indossare per la bisogna. Io e mio figlio ci ficchiamo sotto la maglietta una quantità di giornali della Mostra raccatati all’ingresso per proteggerci dal freddo, ci incappucciamo con i sacconi grigi che puzzano di petrolio e, così combinati, ci incamminiamo sotto la pioggia sferzante che cade obliqua a raffiche copiose verso la fermata del traghetto. Lungo il tragitto incrociamo ragazzi eleganti e ragazze vestite da sera che lasciano schiene e braccia e gambe nude, che avanzano sotto la pioggia verso qualche locale notturno con smilzi ombrellucci ridacchiando e dandosi di gomito per la nostra tenuta che ci rende simili a bidoni ambulanti.

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