Leo Carlesimo
Racconti del peccato/10

Silvano a Mamou

Un vecchio chiese a Silvano di raccontare come aveva ucciso il facocero. Silvano si vantò. Parlava un francese elementare, aiutandosi a gesti. Gli uomini approvavano e di quando in quando scoppiavano in fragorose risate

Silvano, l’elettricista del cantiere, rientrava da una battuta di caccia nei dintorni di Mamou, moyenne Guinée. Incrociò un gruppo di donne di Bolom, il villaggio più vicino alla diga. Offrì loro un passaggio. Lasciarono la pista per un dissestato sentiero che scendeva verso il fiume. Era quasi l’imbrunire quando raggiunsero l’ampia terrazza che digradava verso l’alveo, con le capanne disposte in file parallele lungo la riva e sul greto, tirate in secca, le piroghe.

Lo invitarono a cena. Le donne cucinarono su fuochi di legna e gli uomini esaminarono la selvaggina. Il facocero, circondato di lepri e faraone, era steso sul fondo infangato del pick-up, su un letto di foglie di banano. La scarica di pallettoni l’aveva preso poco sopra la spalla. Dietro le orecchie e sotto la gola s’era formata una scura chiazza di sangue raggrumato.

Mangiarono riso condito con una salsa brunastra dall’odore aspro e bevvero una poltiglia debolmente alcolica servita in calebasse, mezze zucche scavate. Tra le ragazze che servivano, una attrasse l’attenzione di Silvano. Doveva avere tra i sedici e i diciassette anni. Aveva la pelle scura, a grana finissima. Deteneva il segreto di un portamento elegante e altero. Un esemplare di quel tipo di bellezza femminile che sboccia spontaneo nella regione di Mamou, da cui si dice provengano le donne più belle della Guinea. Si chiamava Aminata.

Un vecchio chiese a Silvano di raccontare come aveva ucciso il facocero. Silvano si vantò. Parlava un francese elementare, aiutandosi a gesti. Gli uomini approvavano e di quando in quando scoppiavano in fragorose risate. Aminata, in piedi sulla soglia della capanna, ascoltò tutto il racconto che Silvano infiorò per lei. Indossava solo un pagne annodato basso sui fianchi. Quando il racconto finì il capo villaggio chiese a Silvano se era disposto a vendere il facocero. Lui rispose che non era interessato a venderlo ma a scambiarlo, e fissò Aminata.

Benché avesse avuto con lei il suo primo rapporto sessuale quella sera stessa, il corteggiamento tra Silvano e Aminata si protrasse nel tempo. Tutte le domeniche Silvano andava a Bolom. Portava doni agli uomini e alle donne e raccontava storie di caccia. La sera, si appartava con Aminata. La mattina dopo, all’alba, rientrava in cantiere.

Ci vollero ben due mesi di corte rituale, perché ottenesse dal capo villaggio il permesso di portare Aminata con sé. Il patto fu suggellato da una sorta di cerimonia nuziale. Silvano offrì al villaggio una vacca, che fu sgozzata e macellata dal marabut. Il giorno stabilito, si presentò a Bolom carico di doni. Vi furono canti e danze e a conclusione della festa, si svolse il rito del ratto, o del finto mercato. Quando un forestiero chiede in sposa una ragazza del villaggio, il villaggio deve resistere. E Bolom non aveva alcuna intenzione di cedere facilmente una delle sue fanciulle più belle. Silvano, il pretendente, fu bersagliato di sberleffi. Aminata venne nascosta e ragazze velate furono di volta in volta offerte al suo posto. Lui era costretto a negoziarne il prezzo con gli anziani e le donne. Per quanto la pregasse, lei non accettava di togliere il velo finché non veniva pagato il riscatto. Dopodiché, non essendo Aminata, lui era costretto a rifiutarla e il negozio ricominciava con un’altra ragazza. Dopo ore di trattative e scherni, con tutto il villaggio che si burlava di lui, Aminata fu finalmente fatta uscire dal suo nascondiglio. Silvano pagò l’ultimo riscatto, la svelò e poté portarla con sé in cantiere.

Era una ragazza molto esigente. Silvano non era stato il suo primo uomo. Nella promiscuità del villaggio, aveva già avuto esperienze con diversi coetanei e anche con maschi più anziani. Il suo primo rapporto, seppur incompleto, lo aveva avuto a undici anni. Lui era un ragazzo di qualche anno più grande. Era normale, per i giovani fino a una certa età, mostrarsi al villaggio nudi, i ragazzi conoscevano i corpi delle ragazze e viceversa. Quel tipo la corteggiava. Insisteva per appartarsi con lei e quando erano soli le mostrava il suo membro e le chiedeva di accarezzarlo. Una sera Aminata acconsentì a soddisfarlo. Prima di incontrarsi con lui, strofinò le mani con piri-piri piccante. Dopo pochi secondi che maneggiava il sesso del ragazzo, questi cominciò a piangere e a urlare di dolore.

Questo servì di lezione a tutti gli altri. Al suo modo selvatico, Aminata amava quel tipo di rapporti. Solo i maschi che desideravano essere dominati si appartavano con lei. Le piacevano giochi erotici primitivi e feroci, e di questo Silvano si accorse fin dalla prima volta, e scoprì che anche a lui piaceva.

Ma stentava a tenere il suo passo. La voracità sessuale di Aminata lo sfiancava. V’erano sere in cui, tornato a casa stanco morto dal lavoro, vedeva come una minaccia lo scontro erotico che l’aspettava. E quando era davvero stremato e aveva esaurito ogni risorsa, doveva ricorrere a dei trucchi. Viveva come un’umiliazione quei sotterfugi, ma vi si rassegnava vedendo che Aminata in fondo ne era contenta e lui, pur facendo ricorso a mezzi impropri, in un modo o nell’altro era sempre capace di farla felice.

Tutte le domeniche Silvano e Aminata si recavano a Bolom e ogni volta Silvano portava doni al villaggio. Le donne festeggiavano Aminata e le carpivano delle confidenze. Aminata si dichiarava soddisfatta e il patto tra Silvano e il villaggio veniva rinnovato.

La sera dell’incidente Silvano aveva bevuto troppo. Era esausto. Da ore andava avanti la lotta e lui si era ormai più volte arreso. Ma lei era tutt’altro che sazia e lo provocava. Silvano si sentì inadeguato, sconfitto, e dovette ricorrere a uno di quei trucchi. Finì di vuotare la bottiglia di J&B e si servì di quella. Sentendo Aminata mugolare di piacere, continuò a spingere finché percepì qualcosa di duro fargli ostacolo. Dosava male la sua forza, perché era ubriaco. Sentì quella cosa spezzarsi e quando ritirò la mano vide il sangue.

Tra il pollice e l’indice aveva un taglio profondo. Il collo della bottiglia, rompendosi, era rimasto dentro, e lei gemeva. Lui ne estrasse alcune schegge, ma il grosso non venne fuori.

Portò Aminata in infermeria. Il dottor N’komo dovette incidere col bisturi per estrarre il collo della bottiglia e i frammenti di vetro penetrati in profondità. Pulì la ferita, ma non riuscì a fermare l’emorraggia interna. Non restò che portarla all’ospedale di Mamou.

Silvano non poté starle accanto. Dovette nascondersi dagli uomini di Bolom. La loro petite seur era stata gravemente ferita e tutto il villaggio era ben deciso a fargliela pagare.

Quando fu chiaro che Aminata non sarebbe sopravvissuta, la direzione del cantiere decise di far sparire Silvano. Con la morte della ragazza, sarebbe stato impossibile evitare un processo, con tutte le immaginabili conseguenze. Occorreva che Silvano lasciasse la Guinea prima di allora. Via lui, sarebbe stato certo più facile trovare un accomodamento col villaggio e con le autorità.

Nottetempo un furgone eluse la sorveglianza degli uomini di Bolom, con Silvano ignominiosamente sdraiato in un sottofondo, tra casse di birre vuote. Fu rimpatriato il giorno stesso e pensò così di sfuggire alla vendetta del villaggio.

Sei mesi più tardi, quando tutti avevano già cominciato a dimenticare Silvano e Aminata e i rapporti tra il villaggio di Bolom e il cantiere erano tornati buoni, giunse a Mamou una notizia. Silvano aveva trovato lavoro in Laos, sul cantiere di una diga che costruivano da quelle parti. Era in galleria quando accadde l’incidente. Stava attaccando un cavo al quadro elettrico. Indossava guanti di gomma e scarpe isolanti, però portava nel taschino della camicia una grossa matita da falegname. La punta di grafite fece arco voltaico col sezionatore del quadro mentre Silvano sfiorava col ginocchio la roccia bagnata. La scarica elettrica lo folgorò.

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Foto Leopoldo CarlesimoLeopoldo Carlesimo è nato a Roma nel 1959. È ingegnere. Lavora per imprese che costruiscono dighe in Africa e in Asia. Vive a Roma, ma in passato ha vissuto per anni in diversi Paesi africani. Ha pubblicato una raccolta di racconti, Baobab, Gaffi 2006. Suoi racconti sono apparsi su Nuovi Argomenti.

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