Catia Simone
Racconti del peccato/12

La scelta

Il mio nome è Laura Lau, e ho scommesso su due settori: il sesso e la vecchiaia. Fidatevi: non conoscono crisi. Questa è la mia scelta

“Dio com’è grosso!” esclamai. E svenni.

No, accidenti, ancora un black-out! Certo è anche colpa anche mia, che dimentico ogni volta di caricare la batteria del computer.

Il mio nome è Laura Lau, e ho scommesso su due settori: il sesso e la vecchiaia. Fidatevi: non conoscono crisi.

Dal lunedì al sabato, per diciassette mesi e due giorni, sono stata la colf della signora Agnese; certo, sarebbe stato anche un buon lavoro se solo non fossi una dottoressa in storia dell’arte, una triennale conseguita all’università di Trento, scelta dopo un diploma di ragioneria, e divenuta quinquennale a causa dei miei numerosi ripensamenti.

Dopo la laurea, mi sono trasferita da Trento a Verona, in questo piccolo appartamento ammobiliato bivaccando dal letto al divano fino a quando sono stata assunta come stagista negli uffici amministrativi di un centro commerciale, condiviso con colleghe ansiose in perenne stato di sindrome premestruale, e colleghi in perenne stato di erezione (mentale), dicendomi, al termine: «Ma chi me lo fa fare ad annientarmi dietro una scrivania per seicento euro mensili?».

Ho pensato, quindi, a quanto potesse essere redditizio un lavoro part time a casa di qualche anziana se, magari,sommato alla consolazione a pagamento di un organo maschile annoiato dalla routine quotidiana, o resuscitato dalla farmacologica consapevolezza di essere ancora vivo. Così, grazie anche all’aiuto di un mio ex fidanzato, un dentista cinquantenne che ho lasciato dopo sei mesi di frequentazione finita tra gli sbadigli di una cena sul lago, ho scoperto, senza alcuna inibizione, la mia predisposizione per i rapporti occasionali in una serata organizzata da lui insieme ad altri amici, in un club privè di Desenzano. A quel punto toccava solo dare un prezzo a quegli incontri. Il primo lo pagò, con entusiasmo e soddisfazione, proprio lui.

Ah, Agnese … Che donna deliziosa! Mi riceveva truccata e vestita in modo ineccepibile, ma con i lunghi capelli sciolti sulle spalle. Toccava a me pettinarla, intrecciare la sua chioma bianca, e infilarle le perle nei lobi cadenti.

Avevo bisogno di questi gesti squisitamente femminili; cancellavano le ombre e i dubbi che mi portavo dentro dalle notti appena trascorse che mai rinnegherò.

Pulivo superfici già perfettamente pulite e su un candore che mi rigenerava anche se, nella vasca macchiata da qualche livido di ruggine, trovavo il pannolino gonfio d’urina, e la polvere di cipria con cui la signora Agnese accendeva il colorito di chi è prossimo alla morte ma felice di avere un altro respiro accanto a sé. Il suo si è fermato una sera d’autunno, procurandomi un grande dolore. L’annuncio della sua morte mi fu comunicato da una sua lontana nipote di cui la signora Agnese non mi aveva mai parlato.

Ero sinceramente affezionata a quella donna, ma soprattutto a quella consuetudine lavorativa che per mezza giornata mi dava l’illusione di essere una persona normale, e non una dispensatrice d’amore a tariffa oraria. Decisi di andare in ferie non prima di aver onorato gli ultimi impegni serali, uno dei quali per me un’assoluta novità. I miei clienti erano uomini senza particolari perversioni, e ciò di cui avevano bisogno era una banale scopata con una donna che non cercava particolari significati dietro quelle posizioni più o meno abituali.

L’appuntamento era davanti a una rimessa di trattori, appena fuori dalla statale. Il cliente era una donna in cerca di nuove sensazioni o di una precisa identità, e cinquecento euro erano sufficienti per toglierle ogni dubbio.

Mi accomodai nella sua lussuosa Audi, infastidita dal profumo dolciastro del deodorante per auto e dai lamentosi vocalizzi di Tiziano Ferro, interrotti per qualche minuto dalle assordanti notizie sul traffico.

Ci accomodammo nella hall dell’albergo, buttando giù un paio di bicchieri di prosecco mentre accanto a noi un gruppo di uomini d’affari giapponesi discuteva animatamente nella proprialingua, gettando di tanto in tanto un’occhiata su di noi, immaginando magari di poterci sedurre seguendo la prassi che regola i rapporti economici della domanda/offerta sessuale tipica del mondo maschile. Quella stessa regola che per una sera lei ed io stavamo sovvertendo.

La camera era abbastanza cupa, e le grandi finestre esposte sul cortile cinquecentesco erano coperte da pesanti tendaggi; folate di profumo s’intersecarono nell’aria, aromatizzando una scena che nessuna di noi sapeva come interpretare. Lei si distese sul letto per prima, lasciandosi guardare sotto la luce dell’unica lampada accesa e, nonostante fossi una professionista, non sapevo da che parte iniziare. Forse dai piedi, risalendo con la lingua verso le caviglie sottili. Oppure dai suoi seni finti, due bussole di silicone con i capezzoli puntati a est e a ovest, scendendo poi verso la sua voragine umida che mi provocava repulsione e indifferenza. Finché lei, empaticamente, mi disse:

“ Laura non preoccuparti … fermati pure.”

Non perdemmo altro tempo. I giapponesi erano ancora lì a discutere, mentre lei ed io sfilavamo davanti a loro sapendo di non avere sovvertito un bel niente.

Davanti ad una focaccia con le acciughe, mi rivelò di essere la misteriosa nipote della signora Agnese, alla quale confidò la sua presunta ma mai provata omosessualità. Fu proprio l’anziana zia a suggerirle di chiamarmi dopo aver scoperto, rovistando nella mia borsa, l’agenda su cui segnalavo nomi, numeri e orari dei miei incontri.

Non mi arrabbiai, ma neanche tentai di comprendere; chiesi e ottenni la metà del compenso che mi spettava, e la salutai stringendole la mano sussurrando un gelido addio. In fondo, era solo una donna infelice che non amava più suo marito, sprecando soldi che avrebbe potuto utilizzare per un buon avvocato.

Decisi, dopo quest’ultimo incontro,di praticare qualche giorno di castità in Puglia, affacciandomi alla stessa finestra su cui mi sporgevo da ragazzina immaginando il sesso sulla spiaggia.

* * *

“Dio, come è grosso!” Esclamai. E svenni.

 Sì, svenni davanti al luccichio degli ottantasei carati del “Diamante del Fabbricante di cucchiai” che stavo osservando dietro il vetro blindato, nella sala del Tesoro del palazzo di Topkapi. Ero arrivata a Istanbul da qualche ora, con il primo volo da Malpensa, per incontrare un ricco imprenditore che mi voleva là, a sua disposizione. Ma grazie, probabilmente, a quel calo di pressione dovuto alla stanchezza del viaggio, mi sono risvegliata tra le braccia di Fathi, un giovane studente turco, circondata dalle facce preoccupate dei turisti e quelle inquietanti dei poliziotti.

Dopo aver ripreso conoscenza, Fathi mi accompagnònel bar del museo, dove, dopo un caffè turco addolcito da tre abbondanti cucchiaini di zucchero, i suoi pettorali coperti da una canottiera bianca indossata sotto un lungo cappotto nero, spenserola voglia di continuare a visitare il palazzo, accendendo in me, dopo tanto tempo, un desiderio che i vantaggi economici della domanda/offerta sessuale verso cui avevo indirizzato la mia vita, avevano assopito.

Passeggiammo lungo le vie principali della città, affondando i piedi nelle pozzanghere della neve sciolta caduta abbondantemente il giorno prima, e lanciando di tanto in tanto qualche castagna bollente ai cani randagi che ci scortarono fino all’albergo.

Tanto il mio cliente sarebbe atterrato nella serata tra le luci di una città imbiancata che osservavo dietro i vetri di una camera che avremmo condiviso assieme ai cioccolatini sul letto.

* * *

Sono tornata a Verona ieri, dopo un lungo fine settimana trascorso a Istanbul.

L’atmosfera natalizia è notevolmente sotto tono, e la recessione ha spento molte luminarie e il sorriso della gente che mi sta intorno. L’unico luogo che non conosce davvero la crisi è la mia camera da letto. Il prossimo cliente lo vedrò stasera, ho ancora tanto tempo per me, e nel frattempo è tornata la luce.

Millecinquecento euro sono un ottimo motivo per continuare a fingere l’amore, anche davanti aquesto schermo spento, dentro cui ho scritto una storia che forse un giorno racconterò.

* * *

catia simoneCatia Simone è nata a Bari nel 1967, ma da più di venticinque anni vive e lavora come agente di commercio a Bardolino (VR).
Ha pubblicato diversi racconti su riviste letterarie e antologie come La poltrona per la Historica edizioni o la collana INCIPIT D’autore nel giugno 2011 per la Giulio Perrone editore. Ha pubblicato tre raccolte poetiche con il self-publishing:Frammentinel 2012 e nel 2013 Amore 2012e Adesso so chi sei. Collabora, infine, con la rivista Il Furore dei Libri.

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