Alessandro Boschi
Il nostro inviato al Lido

La normalità nel nome di Charlot

Il pregio di “La rançon de la glorie”, dove si racconta una vicenda che coinvolge la famiglia Chaplin, è quello di essere un film-film, non una virtuosistica opera da concorso. Come invece è l'iraniano “Ghesseha (Tales)”, sospeso tra il già visto e il miracoloso

Confermando la nostra impressione circa la tiepidezza degli applausi dovuta più alle scarse presenze in sala che non al mancato entusiasmo per i film proiettati, i due film di oggi hanno raggiunto e superato la sufficienza, anzi. Il francese La rançon de la glorie diretto da Xavier Beauvois racconta, partendo da fatti realmente accaduti, le vicende di una coppia di poveracci che tenta di ricattare la famiglia Chaplin (la storia si svolge nel 1977) chiedendo un riscatto per la bara contenente i resti del grande Charlot, da loro faticosamente trafugata dal cimitero. Bravissimi gli attori, Benoit Poelvoorde e Roschdy Zem, per un film che, ci veniva in mente durante la proiezione, ha forse il torto di essere normale, magari anche poco da concorso (?), senza troppi virtuosismi, senza troppi anfratti psicologici difficili da digerire. Ma niente affatto superficiale, costruito sulla musica dello stesso Chaplin e arricchito da molti inserti del leggendario omino con i baffi (che non è quello della Bialetti).

faccia buonaVoto: convincente

Due cose ci sono rimaste particolarmente impresse: la prima è la battuta della guardia carceraria che mentre Eddy esce dal carcere lo apostrofa dicendo: «e smetti di fare il clown». Che è poi esattamente quello che accadrà, e che in fondo è anche una chiara dichiarazione di intenti del film. Poi, notevoli, le due o tre scene in cui i due discutono animatamente con la musica che sostituisce il loro parlare, come in un vero film muto. Insomma, come avrebbe detto Titti: «ci è sembrato di vedere un film». Non eccelso ma un film.

faccia perplessaVoto: quasi quasi…

Diverso il discorso per Ghesseha (Tales) di Rakhshan Banietemad, questo davvero tipico film da concorso. Dopo una travagliatissima produzione il film vede la luce grazie al cambio di governo iraniano, che fino ad allora aveva negato l’autorizzazione a farlo girare, fatta eccezione, dimmi tu, per le proiezioni private. Evidentemente le elezioni a qualcosa servono, anche se noi in Italia ce lo stiamo dimenticando. Comunque, la storia è uno spaccato della società iraniana in piena crisi, e il filo rosso, in verità piuttosto esile, è la presenza di un operatore che non si capisce bene se sia un giornalista, un videomaker o un attivista politico. Nella prima parte sembra tutto un già visto, anche se in realtà fa una certa impressione osservare quelli che sono anche i nostri problemi quotidiani declinati in una società e in una lingua così lontane da noi. Il dialogo finale, però, è un piccolo miracolo. Scritto benissimo e recitato altrettanto bene da Peyman Moaadi, che ricorderete in Una separazione di Asghar Farhadi, è un crescendo rossiniano che, al contrario della musica, si conclude con una meravigliosa quiete emotiva dei duellanti. Un film breve, poi, è sempre accolto con una predisposizione d’animo migliore. A domani.

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