Danilo Maestosi
Al castello del Buon Consiglio di Trento

Il mistero di Dossi

In un quadro del grande pittore quattrocentesco, “Giove dipinge le farfalle”, tutto il senso del mistero che l'arte può interpretare, senza mai poterlo decifrare

Può bastare una frase per promuovere un saggio, un romanzo tra i libri che illuminano la vita: spronato da Italo Calvino, continuo a precipitare all’inferno per cercare tracce del paradiso perduto che imprigiona. Una sequenza per fare di un film la misura del tempo alle spalle: ogni volta che evoco il Sessantotto mi riesplode dentro la pioggia di detriti e di merci con cui Antonioni chiude Zabriskie Point. Così, è bastato un quadro per iscrivere tra le esperienze più toccanti dell’estate e dell’anno la mostra con cui il castello del Buon Consiglio di Trento rende sino a fine autunno omaggio a Dosso Dossi (1486-1542) nelle sale che tra il 1531 e il 1532 ha affrescato insieme al fratello Battista. Paesaggi e fantasie di colline brumose, scene allegoriche, cariatidi che si proiettano da mura e soffitto come fantasmi, trionfi di putti, busti di imperatori e poeti che questo eccentrico pittore di origine trentina, ispirato dal genio di Giorgione e Tiziano nel suo apprendistato a Venezia e poi lanciato al successo dal lungo soggiorno ferrarese alla corte di Alfonso I d’Este, dove Ludovico Ariosto lo incoronò tra i grandi maestri dell’epoca, ha realizzato per dar lustro alle ambizioni di un cardinale, Bernardo Cles, che tentò invano di diventare papa con il sostegno imperiale di Carlo V. E per un pelo non ci riuscì.

Opere in parte restaurate in parte sbiadite dal tempo, che ora si specchiano in una quarantina di tele raccolte e arrivate in prestito per l’occasione a documentare il transito di Dosso dalla fluidità senza peso della pittura tonale degli anni d’esordio verso le più controllate fascinazioni del classicismo di Raffaello e del manierismo monumentale di Michelangelo, strade obbligate per chi come lui cercò fortuna anche a Roma senza mai smarrire però il guizzo eretico della poesia che resta la sua impronta più originale.

dosso dossi gioveAlcuni di quei quadri sono capolavori assoluti. Nessuno però riesce ad eguagliare la straordinaria leggerezza e il profumo di mistero di quell’olio rettangolare, 112 cm per 150, esposto a metà percorso che, finita la mostra, si potrà ammirare solo al castello reale di Cracovia, cui è stato restituito dopo una lunga permanenza in un museo di Vienna. È datato 1524. Durante il suo soggiorno alla corte della famiglia d’Este, al fianco di un sovrano illuminato come Alfonso d’Este, che lo scelse come pittore di corte, sodale di ricerche esoteriche, consigliere e persino complice del suo chiaccherato amore per Laura Dianti, la nuova compagna che colmò il vuoto lasciato dalla morte della moglie Lucrezia Borgia.

Il titolo, Giove dipinge le farfalle, già lo segnala come un unicum: mai nel repertorio della pittura rinascimentale un artista si era cimentato con un soggetto come questo. Mai nessuno prima aveva concesso alle farfalle un peso visivo così vistoso e bisognerà contare quasi un secolo in più e arrivare a Caravaggio per vedere irrompere in una natura morta da cavalletto, un cesto di frutta, il volo di un altra farfalla.

Le farfalle di Dossi non sono però schegge di realtà catturate e inserite a contrasto, il loro spazio di vita è mentale, il celeste sporco di uno spicchio di cielo tagliato in alto da una nuvola, la superficie di un dipinto che un personaggio barbuto fasciato da una tonaca rossa, Giove scopriamo, sta completando. Dietro di lui altre due figure, quella di Mercurio, cappello alato d’ordinanza e caduceo nella mano sinistra, il dito dell’altra mano sulle labbra ad intimare silenzio ad una donna, abiti scarmigliati da popolana modi concitati di chi ha fretta di ottenere udienza dal re degli dei. Raccontare una storia. Dicono i critici che impersoni la Virtù. E che venga a reclamare giustizia per un torto subito: la Fortuna, tracotante emblema del Caso l’ha aggredita, sbeffeggiata e persino picchiata. L’aneddoto è contenuto in un testo scritto da Leon Battista Alberti, che veniva recitato durante i convivi nel teatrino di Delizie che Alfonso d’Este si era fatto costruire su un’isoletta in mezzo al Po, chiamando Dosso Dossi a decorarlo ed abbellirlo. Un’operina moraleggiante che serviva a suscitare dibattito tra gli invitati: chi conta di più, la Fortuna, cioè il destino smodato che non si fa imbrigliare, o la Virtù che impone, o almeno ci prova, la regola e il buon fine ad ogni azione umana? Probabile che il committente abbia affidato a Dossi questa traccia, obbligandolo a ritrarlo nei panni di Zeus, come è avvenuto vista la somiglianza con i suoi ritratti ufficiali: il duca, spiegano le fonti, era un appassionato di pittura e un mecenate che teneva molto al suo prestigio di uomo colto. Ma poi ha lasciato al pittore, che godeva dei suoi favori, ampia libertà d’interpretazione ed esecuzione. E Dosso Dossi quella libertà se l’è presa tutta. Trasformando quel quadro in una sorta di confessione dei propri dubbi e delle proprie ambizioni d’intellettuale e d’artista, di una complessità e modernità sorprendenti.

dosso dossi giove 2Dov’è il Giove che conosciamo? Il tiranno infuriato e fazioso che scaglia dardi e incenerisce chi osa opporglisi? O il nume gaglioffo, narciso e perennemente infoiato che seduce, inganna, rapisce, violenta ogni donna di cui s’invaghisce, si confeziona un mondo a misura di desideri e capricci? Impossibile riconoscerlo in quell’uomo anziano, elegante ma dalle vesti dimesse, ingobbito nella sfida che impone al suo pennello, che appare più ardua di qualunque altra impresa Giove abbia consegnato alla biografia ed al mito. Così concentrato, così preoccupato, così mesto. Pensate: un dio malinconico. Inconcepibile persino per un nume pagano, che la concorrenza del cristianesimo e delle altre religioni monoteiste ha relegato tra le razze imperfette e in via d’estinzione. Prive di un requisito che fa di un Dio un vero Dio. Non l’immortalità, quella nel Pantheon classico si regalava pure come un titolo nobiliare. Ma del sigillo esclusivo della Creazione. È il tallone d’Achille della mitologia greca non aver messo mano alla nascita dell’Universo e dell’Uomo. All’inizio, come nelle moderne teorie del Big Bang c’era solo l’indistinto del Caos. Poi chissà come spunta, attorniata da altre entità, la Grande Madre Gea. È lei a produrre per partenogenesi il suo opposto maschile, Urano. E ad accoppiarsi con lui per concepire dei figli che nulla ancora hanno di umano. Sono Giganti, Superuomini, mostri da fumetto in fondo. Tra questi c’è Crono che detronizza Urano, castrandolo e prendendo il suo posto per essere poi abbattuto da un altro figlio ribelle, Giove appunto che dall’Olimpo governerà la Terra insieme a fratelli, cugini e altri parenti acquisiti; un padrone di condominio non un creatore, perché l’uomo non è sua creatura, come non lo è la Natura.

A questa genitura incompiuta sembra pensare il Giove di Dosso Dossi quando alla vista delle farfalle lo assalgono lo stupore e l’invidia. Forse anche la paura: non è un caso che due millenni dopo la teoria delle Catastrofi ci insegnerà a tener conto tra i fattori scatenanti anche del battito delle ali di un lepidottero. Sicuramente la voglia di farla sua quella bellezza che è nata chissà come e sfugge al suo potere. Come? Dipingendola, avventurandosi in un’esperienza da comune mortale che non gli appartiene per replicare almeno forme e colori prima che si allontanino dallo sguardo, si dissolvano dalla memoria. Con l’ansia continua di sbagliare. In quei dubbi, in quei tentennamenti Dossi si riconosce impotente come Giove. L’arte come punto di avvicinamento alla realtà, ma mai come approdo definitivo, perché l’arte può intercettare il mistero, ripercorrendone le orme dentro o fuori di sé. Ma non riuscirà mai a decifralo, a toccarne il fondo, proprio come succede agli enigmi dei sogni. Perché non parli? si infuriava Michelangelo di fronte al suo Mosè. È un assillo che ancora oggi apre abissi a chi continua a cercar la propria verità nella pittura e attraverso la pittura, senza preconizzarne ed enfatizzarne la morte o tentare di sostituirla con qualche altro surrogato concettuale, come fa ad esempio Damien Hirst, superstar contemporanea in gran voga: anche lui ha dedicato molti lavori alle farfalle, rappresentandole con assemblaggi di esemplari morti, quadri come teche, campionature da entomologhi.

dosso dossi giove 3Chissà, forse a seguire gli echi che ci ridesta dentro, nella tela di Dosso Dossi l’attenzione andrebbe dirottata da Giove alle farfalle: l’effimero che diventa assoluto. E viceversa. Zhuangzi, grande poeta cinese del quarto secolo a.C, ha cercato di ammaestrarci con questo racconto: «Una volta sognai di essere una farfalla che svolazzava qua e là. Poi mi svegliai ed ero ancora io. Ora non so più se sono un uomo che ha sognato una farfalla o una farfalla che ha sognato di essere Zhuangzi». Eugenio Montale in Ossi di Seppia ne ha tratto una conclusione che potrebbe sottrarre il Giove pittore al magone della sua inadeguatezza: «Passò nel riquadro azzurro una fugace danza/ di farfalle; una fronda si scrollò nel sole/ Nessuna cosa prossima trovava le sue parole/ ed era mia, era vostra, la nostra dolce ignoranza».

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