Pier Mario Fasanotti
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Cibi & Libri

Verga si considerava un esperto dello stufato, D'Annunzio si nutriva come un naturalista, in “Gita al faro” primeggia il “boeuf en daube”... È quanto si apprende dal volume di Maria Grazia Accorsi su letteratura e cucina. Poi c'è il racconto di un grossolano errore di Lombroso e le poesie di Osip Mandel’stam

Ossa criminali – Polemiche tra savoiardi e filo-borbonici. Ancora per un cranio studiato da Cesare Lombroso, fautore della vanesia teoria dell’antropologia criminale. L’oggetto in questione è il cranio di tale Giuseppe Vilella, brigante meridionale che i suoi conterranei reclamano volendolo erigere a simbolo della resistenza contro le truppe piemontesi. Un martire, insomma. Di recente si sono mobilitati vari gruppi legati alla Associazione Neoborbonica. A guardar bene, grazie al libro Lombroso e il brigante di Maria Teresa Milicia (Salerno editore, 168 pagine, 12 euro), ne vengono fuori delle belle, intese come balle. Questo cranio, assai meno famoso di quello dello shakespeariano Yorik, contiene al suo interno, per la penna frettolosa di Lombroso, un foglietto che ci informa che era morto in carcere nel 1864: «Individuo alto 1,70, pelo nero, poca barba, ipocrita ladro per tre volte; di carattere taciturno, violento…».

lombrosoCome abbia trovato il Lombroso queste informazioni è un altro punto nebuloso. Contrariamente a quello che Lombroso millantava, non fu lui a fare l’autopsia. Affermò di aver fatto la scoperta nel 1871, ma compì un grossolano errore scientifico. La sua attenzione fu attratta da una particolare fossetta nel cranio del ribelle, segnaletica – a suo modo di vedere – di forte vocazione alla delinquenza. Sostiene l’autrice, che insegna Antropologia culturale, che la famosa fossetta non è per nulla la prova della predisposizione alla criminalità e nemmeno segno distintivo dell’“atavismo” tanto caro al Lombroso, tutto eccitato alla vista della perfida e primitiva testa nel carcere di Vigevano, dove i militi savoiardi l’avevano trasferito.

 

A tavola – Se ci fate caso sono rarissimi i quadri che raffigurano l’uomo che mangia. Eccezioni: Il mangiafagioli di Annibale Caracci, I mangiatori di patate di Van Gogh, Déjeneur sur l’herbe di Monet, Colazione dei canottieri di Renoir. In ogni caso, sia in pittura che in letteratura il cibo appare come qualcosa di assolutamente secondario rispetto alla descrizione della figura umana, del carattere e della situazione. Soprattutto in questi ultimi anni in cui i media, con un’insistenza fastidiosa, ci hanno scaraventato addosso l’arte della cucina, con relative gare e intrecci di enfatiche emotività, è curioso leggere l’arguto libro di Maria Grazia Accorsi intitolato Personaggi letterari a tavola e in cucina (Sellerio, 264 pagine, 16 euro). Scrive l’autrice: «…i romantici non mangiano, i realisti mangiano e descrivono con misura e parsimonia, i veristi mangiano cibo rustico e regionale, e soffrono nel procurarlo, nel pagarlo, nel consumarlo, i decadenti mangiano poco e molto raffinato, tè, champagne, ostriche, dolcetti… come potrebbe un romantico, perso nell’ideale, nel sogno, in Dio, nelle montagne, abbassare lo sguardo fino a uno spezzatino?».

Cibi&libriA proposito di cibi, Verga confidava all’amico Capuana: «Io ho la febbre del fare, non perché me ne senta la forza, ma perché credo di essere solo con te e qualche altro a capire come si faccia lo stufato». Nella Gita al faro di Virginia Woolf, si beve molto tè (per gli anglosassoni il caffè ha sempre avuto una connotazione un po’ volgare), poi al centro della tavola compare un piatto provenzale, il boeuf en daube, che è una serie di bocconcini di manzo conditi con prezzemolo e aglio e avvolti nella pancetta. Il cibo non è una costante narrativa, come lo era per esempio per Hemingway. Tuttavia quel boeuf pare funga da «emblema della moglie. Della casa, dell’accoglienza, dell’ospitalità, della cura e dell’accettazione, dell’esattezza e della scienza della vita pratica, della competenza e del rispetto dei sensi, dei profumi e dei sapori e della significanza delle cose, emblema di una donna saggia e bella, in lotta “dinanzi alla sua antica antagonista, la vita”». Poi, in materia di cibi, con Gabriele D’Annunzio, il protagonista de Il piacere, Andrea Sperelli, si trova a mangiare con l’ex rivale (gli ha rubato la bella Elena). Un po’ perfido il vate pescarese descrivendo un “principe volgare”: «Egli s’interrompeva, di tratto in tratto, per mettere il coltello in un pezzo di carne succulenta e sanguinante, che fumigava, o per vuotare un bicchiere di vin rosso». Conosciamo tuttavia quel che mangiava D’Annunzio, precisamente il 28 aprile 1890 assieme alla sua amante Barbara (è rimasto il conto della trattoria): pane, vino, maccheroni, salame, cotolette con contorno, fritto di pesce, finocchi e caffè. Annota l’autrice: «Cibo da gente normale, da naturalisti diremmo, non da simbolisti psicologizzanti».

 

Mandel'stamFili di piombo – Il 1913 fu un anno importante, soprattutto, alla vigilia di «un doppio salto nel vuoto», per i poeti di San Pietroburgo che tentarono di rompere i legami con un simbolismo otto-novecentesco, nel tentativo di toccare il nucleo delle cose. In quell’anno Osip Mandel’stam pubblicò la raccolta in versi intitolata La pietra. Oggi quest’opera viene proposta per la prima volta al lettore italiano, a più di cent’anni dalla sua comparsa, grazie al Saggiatore (187 pagine, 14 euro). Ed è cosa preziosa, visto che la poesia in genere è da retrovia, non parliamo se gli autori sono italiani e viventi: pare una pecca, questa. Mandel’stam venne deportato in Siberia in quanto avverso al regime ottuso di Stalin. Costretto ai lavori forzati, morì nel 1938. Sua moglie Nadezda compì qualcosa di memorabile: trascrisse i versi di Osip, molti dei quali imparati a memoria. Poesia del 1913: «La legge è della parte del nemico./ Non è possibile aiutarlo in nessun modo?/ Coi pantaloni a quadretti/ abbraccia singhiozzando la figlia». E ancora: «La fiamma mi distrugge/ la vita desolata/ e adesso non la pietra/ ma il legno io canto./ Esso è lieve e rozzo./ Da un pezzo solo vengon/ sia il cuore della quercia/ sia i remi del pescatore./ Piantate forte i pali/ picchiate o mazze dove/ un ligneo paradiso/ ha oggetti lievi!». In un’altra poesia, Osip, impegnato ad affermare l’assoluta autonomia dell’arte e dell’intellettuale rispetto al potere (colpa gravissima per il georgiano baffuto), scrive: «…e ovunque ci sia spazio per mezzo discorso/ salta sempre fuori il montanaro del Cremlino». «…Le sue dita sono grasse come vermi/ le sue parole esatte come fili di piombo./ Ammiccan nel riso i suoi baffetti da scartafaccio/ i suoi stivali brillano./ Ha intorno una marmaglia di ducetti dai colli esili/ e si diletta dei favori dei mezzi uomini». E alla fine: «Ogni morte è una fragola per la bocca/ di lui, osseta dalle larghe spalle».

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