Anna Camaiti Hostert
Cartolina dall'America

Storie di reducismo

Gli States si appassionano per la storia di Bowe Bergdahl, il soldato appena liberato in Afghanistan. Ma la sua vicenda è identica a un seria tv di grande successo: «Homeland»

Di solito, specie nel cinema e nella televisione, è l’arte che imita la vita, cioè trae spunto da fatti quotidiani che fanno da ispirazione per le storie trasposte sullo schermo. Qualche volta però avviene il contrario, cioè “life is imitating art”. O meglio, quello che accade nella vita reale se non rappresenta esattamente ciò che è appare sullo schermo, stranamente sembra tuttavia riproporre un dejà vu e somigliarli molto.  Con un’ inversione di un trend non solo estetico, ma anche culturale e politico non più reversibile. Come nel caso della serie televisiva Homeland.

Il fatto reale è quello del rilascio del sergente Bowe Bergdahl, 28 anni, ultimo soldato americano prigioniero in Afganistan, uno di quei POW (Prisoner of War) di cui tanto si è parlato molto tempo fa già in occasione della guerra in Vietnam. Catturato dai Talebani nel 2009, il soldato originario dell’Idaho, è stato cinque anni in cattività ed è stato rilasciato sabato scorso in cambio di cinque prigionieri talebani detenuti nel famoso carcere di Guantanámo a Cuba. Un tempo, cinque anni, necessario ad entrare in contatto con la cultura del paese di cui si è stati ospiti e che può portare a sentirsi estranei proprio nei confronti della propria. Cosa che ha spinto il padre del soldato, dopo avere notato che il figlio ha grandi difficoltà a comunicare e a comprendere appieno la lingua inglese, ad imparare la lingua Pashtun. Il rilascio di Bergdahl avvenuto ai confini con il Pakistan è stato condotto attraverso l’intermediazione dell’emirato del Qatar. Una dozzina di agenti della Special Operation Force ha preso in consegna il prigioniero da un gruppo di diciotto talebani. Il raro incontro sul campo di battaglia tra guerrieri che fino a ieri si sono combattuti l’un l’altro è durato pochi minuti. Tra i prigionieri di Guantanámo ci sono alti ufficiali dell’esercito talebano che nel frattempo sono stati trasportati in Qatar dove sono state anche fatte volare le loro famiglie in quanto secondo l’accordo non si potranno spostare dal paese per un anno.

Bergdahl, il quale nell’elicottero che lo riportava in Europa ha scritto su un piatto di carta la sigla “SF?” (Special Forces con un punto di domanda) chiedendo chi fossero, tanto era confuso, chi fossero coloro che lo stavano portando via. Dopo che gli è stato risposto di sì, erano Special Forces, è scoppiato in un pianto dirotto. Bergdahl è arrivato domenica in Germania a Landstuhl e sarà trasferito a San Antonio in Texas dove sarà sottoposto ad un debriefing da alcuni agenti dell’intelligence americana anche se non si conoscono i tempi del suo rientro ufficiale negli Stati Uniti. I misteri intorno a questo caso tuttavia sono ancora molti. A partire dal fatto che nessuno capisce perché il soldato americano sia uscito dal suo compound quando gli era stato espressamente proibito. Cosa che non solo ha permesso il suo rapimento, ma che ha fatto addirittura parlare di una sua diserzione. Mentre adesso si discute invece di una sua promozione e si acclama come un eroe che è sempre stato a cuore al proprio paese. «Non è stato dimenticato dal suo paese» ha affermato infatti Obama sabato scorso nel giardino delle Rose alla Casa Bianca alla presenza dei genitori del soldato Bergdahl, Robert e Jani. «Gli Stati Uniti d’America non lasciano mai i nostri uomini e donne in uniforme indietro» ha concluso il presidente.

Inoltre, non si capisce perché il governo abbia trattato la liberazione dell’ostaggio sottostando a tali pesanti richieste dei terroristi. E ancora perché Obama non sia passato per il Parlamento e abbia condotto le trattative della liberazione dell’ostaggio in gran segreto. Il Ministro della Difesa Chuck Hagel ha accampato motivi di fretta dovuti alla salute e alla sicurezza del prigioniero. Tuttavia i repubblicani hanno già gridato al lupo, affermando che questi non sono motivi sufficienti per non discutere queste azioni con il Parlamento e soprattutto per trattare con i terroristi, i quali sembrano di fatto avere conseguito una vittoria.

HomelandMa adesso torniamo alla serie televisiva Homeland (nella foto) con cui i punti di contatto sono molti e molte sono le convergenze. A partire dalla necessità di Obama di riaprire con i Talebani trattative di pace che si erano improvvisamente interrotte tempo. Obiettivo che sembra molto vicino a quello dei capi della CIA della serie televisiva che, attraverso numerose evoluzioni durante le tre fasi della serie, sotto la spinta presidenziale, giungono a concludere sulla necessità di indebolire lo stato maggiore dei terroristi dividendone il gruppo dirigente per poter trattare da una posizione di forza. Su tutto aleggia il rapporto tra culture estremamente diverse che entrano in contatto in modo traumatico, una guerra, e che questo trauma sembrerebbero poter trasformare in un processo di contaminazione. Che tuttavia non sembra riuscire. La serie televisiva che si è conclusa in dicembre, per l’appunto è la preferita del presidente Obama. Proprio come nel programma, il soldato americano che è stato preso prigioniero è rimasto in cattività per un lungo numero di anni: cinque nel caso di Bergdahl, otto in quello di Brody che, a differenza del suo corrispettivo reale, è un marine.

I guai, nella fiction televisiva, cominciano proprio dal debriefing a cui Brody è sottoposto. Lì un’agente della CIA, Carrie Mathison, dalla personalità bipolare e con diversi issues psicologici ritiene fin dall’inizio che il marine non dica tutta la verità e di fronte alla celebrazione del suo eroismo rimane fredda. Sospetta infatti che l’uomo sia invece diventato una spia a servizio dei terroristi. Fedelissima all’intelligence durante tutto il corso della serie, anche contro l’opinione di coloro che vedono in Brody un eroe, la donna continua a cercare di mettere in guardia l’organizzazione contro il marine. Ciò non le impedisce tuttavia di innamorarsi di lui e di vivere una storia in cui ambedue sono profondamente coinvolti. E quando finalmente anche i suoi capi si convinceranno che ha ragione, il soldato sorprenderà tutti e cambierà  le sue convinzioni tornando nell’alveo della sua cultura di cui tuttavia sceglierà di divenire una vittima. Scagliando un macigno pesantissimo contro di essa. Infatti alla possibilità di salvezza da parte dell’intelligence rinuncerà scegliendo la morte, pur sapendo che l’agente Carrie sta portando in grembo suo figlio. Cioè anche nei confronti della vita. Preferirà morire perché incapace di conciliare le sue radici con quelle di culture altre che cercano semplicemente di sopravvivere e che sembrano condannate invece ad avere la peggio. E che ormai occupano nella sua sensibilità un posto essenziale.

Non so quali siano i motivi che abbiano spinto i creatori della serie a far morire uno dei protagonisti  principali proprio nell’ultima puntata. Ma ha tutte le caratteristiche di un’accusa contro la ragion di stato. La serie è stata un vero successo perché, oltre al fatto di essere stata ben costruita e con una suspense che stata sempre tenuta viva durante tutto il corso delle puntate, ha mostrato che nel rapporto di contaminazione tra le culture ci sono sì dei rischi, ma anche degli scambi che possono portare a grandi trasformazioni e un maggiore allargamento della democrazia. A patto che non siano le guerre a provocarli perché allora il prezzo è altissimo. Troppo alto per produrre cambiamenti positivi. Infatti, si allarga l’orizzonte dei punti di vista e come accade con il crescendo drammatico di questa serie televisiva, si intravedono vie d’uscita, ma nel caso di conflitti e di guerre sono  abbastanza limitate. E molto spesso distorte. È difficile in questo frangente non comprendere la conversione all’Islam del marine Brody e la sua partecipazione iniziale a certi obiettivi dei terroristi di cui si è convinto, dopo avere assistito agli attacchi dei droni nei confronti della popolazione civile. Che mietono vittime innocenti tra cui moltissimi bambini. Stragi che avvengono lontano da noi e che sembrano non toccarci, ma la cui portata drammatica invece ci riguarda tutti con conseguenze epocali che sembrano tutte avere un punto comune di non ritorno: bandire le guerre.

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