Lidia Lombardi
L'Italia di Berlinguer/3

Il sogno è finito

Dov'erano, negli anni Ottanta quando la corruzione iniziava a dilagare, tutti quelli che oggi santificano il vecchio leader del Pci? Proprio queste celebrazioni kolossal ci dicono che il Paese contraddittorio ma onesto di Berlinguer non c'è più

Per me, Enrico Berlinguer – superstar ora che sono passati trent’anni dalla morte – è un sentimento. Rimanda a un mondo che pure era zeppo di violenze, di segreti di Stato, di marciume, di dittature. Ma un mondo nel quale la speranza era comunque ospitata. O almeno l’idea che un progresso, sociale, culturale, etico fosse raggiungibile. Magnifiche sorti e progressive, insomma, verso leopardiano che nell’ironia si riferiva all’utopia settecentesca in cui l’uomo era al centro della Storia e l’individuo poteva ancora costruirsi il proprio destino. Prospetticamente, per i figli, i discendenti.

Enrico Berlinguer questo proiettarsi nel futuro incarnava. E per questo a me appena uscita dal liceo – quel “Torquato Tasso” di Roma dove studiavano Veltroni e Gasparri ma dove le parole d’ordine erano di Potere Operaio – il neo segretario del Pci dava l’ottimismo della speranza, della chance che un dittatore alla Pinochet ma anche un’Urss killer a Budapest e a Praga alla fine fossero messi fuori dalla Storia, e senza avere epigoni.

beatlesBerlinguer era insomma un’icona da mettere nel Pantheon di giovani come me di sinistra parlamentare, diffidenti dei compagni di scuola che parlavano di bombe molotov da far scoppiare nei cortei, se non peggio. Un’icona pop e rassicurante, come le canzoni dei Beatles o le note alla chitarra di Joan Baez. In una confusione ideologica, certo, che mischiava consumismo e Frattocchie, il Manifesto di Marx, La Corazzata Potemkin vista al cinema Nuovo Olimpia e le minigonne della swingin’ London. Ma il segretario del Pci là in mezzo in fondo ci stava bene. Non era forse l’uomo del dialogo, con i democristiani o con i cattolici tramite il vescovo Bettazzi di Ivrea, insomma uno che mischiava il diavolo con l’acqua santa? Non era il leader che aveva aperto a una politica industriale occidentale, libera dalla gabbia dei piani quinquennali? Non era colui che cercava di smarcarsi da Mosca e affermare l’indipendenza dei Pc europei, insomma l’alfiere dell’eurocomunismo? Sì, era ondivago, contraddittorio – e lo percepisco ora, in prospettiva. Appoggiava i Khmer rossi e il Vietnam, prendeva i soldi dal Pcus. Ma s’era messo sulla strada della modernità, del cambiamento rispetto allo stagno dei gulag. Parlava inglese, e spagnolo, e francese più che russo. E questo, per me che avevo un figlio piccino quando un ictus lo inchiodò sul palco del comizio di Padova, significava futuro, svolta, dunque speranza.

breznevPer me Enrico Berlinguer è anche rabbia. Rabbia e insofferenza nel sopportare la rincorsa alla commemorazione, adesso che sono passati trent’anni dai funerali snodati da Botteghe Oscure a Piazza San Giovanni, e seguiti da un milione di persone, tra le quali, a dire dell’uomo mite e carismatico chiuso nella bara, pure l’avversario all’ennesima potenza, Giorgio Almirante. In questi giorni campeggia ovunque, il promotore del compromesso storico, l’alleato di Aldo Moro nella peripezia perdente delle convergenze parallele, colui che portò il PCI – elezioni europee proprio di  tre decenni fa – a superare di uno 0,3 la Balena Bianca. Ora lo vedi al cinema col film di Walter Veltroni; lo vedi sugli autobus, nel manifesto che pubblicizza la mostra Enrico Berlinguer nello sguardo degli artisti; lo vedi sulla copertina dell’Espresso che gli dedica uno speciale. Sulle pagine di tutti i quotidiani. Su Youtube col balletto di Grillo che se ne appropria come alfiere della “questione morale” e di Renzi che lo sfila di tasca al comico genovese. Ma dov’era finito Berlinguer nei rampanti anni Ottanta, quelli degli yuppies, dei socialisti da salotto? Dov’era finito ai tempi di Mani Pulite, allorché la sinistra parlamentare era soffocata dalla maledetta paura di finirci dentro anche lei, nelle inchieste per Tangentopoli? Chi lo nominava nel processo di smarcamento da quell’acronimo – Pci, Partito Comunista Italiano – sentito come un macigno per poter governare? Dov’erano gli osanna per Berlinguer nelle metamoforsi Pds, Ds, Ulivo, Pd? Invece no, adesso tutti insieme appassionatamente, a lisciarlo. A fare i cascamorti davanti alla sua gigantografia. In questo meno coerenti dei democristiani ed eredi, che i loro padri nobili, come un La Pira, li evocano a ogni pie’ sospinto.

Per me Berlinguer è una faccia. Una faccia magra, scavata, di bocca sottile e di occhi ardenti. Faccia sobria. Faccia sofferta di pensiero per l’idea, o l’ideologia. Una faccia, comunque, asciugata dall’onestà. Il contrario delle facce che imperano in questi giorni sui mass media. Gonfie, fiere del doppio mento. Rimpinguate dalle tangenti milionarie, intascate per l’arricchimento personale, neanche per il partito o la corrente, o la fondazione. Facce che all’estero fanno schifare l’Italia corrotta. Al contrario della faccia di Berlinguer, che segnalava un’Italia almeno impegnata in una nuova politica. Guardata sì con sospetto dagli States e dall’Urss. Ma non per le mazzette.

Per me Berlinguer è un ricordo.  È uno che parlava di questione morale in un mondo che non c’è più, lontano anni luce, impossibile da resuscitare. Inutile usarlo per rifarsi un’onorabilità, per pulire simbolicamente la fedina penale. Così com’è impossibile ritornare giovani.

Clicca qui per leggere gli altri interventi sull’Italia di Berlinguer: Filippo La Porta, Andrea CarraroAlessandro Boschi

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