Angela Scarparo
Un libro a più voci, ricco di foto e riflessioni

Il femminismo, dopo

«Il segno femminista» è quasi un sussidiario di politica. L'analisi puntuale di un percorso di liberazione sul quale oggi occorre tornare a riflettere. Chiedendosi: “non basta affermarsi vivendo?“

Vale un po’ come sussidiario, il bel libro Il gesto femminista (pubblicato da DeriveApprodi), a cura di Ilaria Bussoni e Raffaella Perna, che sarà in libreria a partire dalla prossima settimana. Vale come sussidiario perché si parte dai fondamentali, e cioè dalle figure. Figure che sono foto e simboli; oltre che, come spesso è per il bambini, domande. E allora, partiamo dalla prima foto, quella di copertina (è anche quella che, in qualche modo, contiene il titolo). Perché le donne, a partire dalla metà degli anni ’70 in Italia, (più che in altri paesi) durante le manifestazioni (ma non solo), usavano, in segno di gioia, o di protesta, alzare le mani, e unire i pollici e gli indici? Che significato aveva quel gesto, quel vuoto fra le dita?

Se può essere utile sapere (come scrive Laura Corradi, nel primo dei sedici pezzi di cui il libro è composto) che si «tratta di un segno antichissimo… (un segno) che Abdullah Ocalan nei suoi studi dal carcere fa risalire alla fine della civiltà sumera, fondata sul culto di una dea dalle fattezze umane, che soffriva di solitudine e dalla cui costole crea l’uomo», fondamentale, invece, lo diventa, per ribattere, tutte le volte in cui qualcuno ci apostrofi dicendo che proveniamo da una costola dell’uomo.

il gesto femministaMa il libro non riguarda solo possibili definizioni, od origini. Poiché se, nel bel pezzo di Federica Giardini, «il gesto femminista» è riportato e assimilato al modo in cui da sempre, i «senza parte» (secondo la bellissima definizione di Ranciere, 1995) partecipano, ed è definito, dalla stessa autrice un «gesto che prende il corpo per intero e mostra quanto il linguaggio vigente non sia ancora in grado di dire», Ilaria Bussoni fa invece notare come l’invenzione figurata – quel rombo disegnato con le mani – non rappresenti l’irrisione, o, non solo, la possibilità di rendere più vivace e colorata una manifestazione, ma corrisponda a una vera e propria invenzione culturale: «…e le donne si inventarono un sesso», precisa. Che è come dire: è vero le donne ci sono sempre state, morfologicamente, e come presenza, ma quel gesto, creativo dal punto di vista formale, è di una creatività che, come dice Carla Lonzi, non è da «cani da guardia del mondo patriarcale», ma ha in sé lo scarto, la differenza del femminismo. Lei, Lonzi (nel bel saggio di Vanessa Martini), la troviamo intenta, nel 1970 a rispondere a un dibattito iniziato da Germano Celant. Il dibattito riguardava la critica d’arte, e il modo in cui si doveva o si poteva essere critici. Non è forse meglio, chiede Lonzi, rivendicare «per sé una completa identificazione con il collasso di quella figura?». Non vale forse la pena, (chiedeva) dire che l’unica critica che abbia senso è quella che parla della crisi, del collasso, appunto? Sulle singole pratiche, dice Martini, Lonzi è radicale.

In tempo di selfie e di sovraesposizione mediatica, penso io, possa essere utile riprendere un episodio riguardante Carla Accardi e Paola Chinese, entrambe artiste. Se la prima, ricorda Martini, che aveva esposto la foto di una nonna materna nell’ambito di una personale, ricevette da Lonzi questa risposta secca: «riscuote quelle gratificazioni che le impediscono di avere dei dubbi e quindi di prendere coscienza di sé», per Chinese, che compilò un libro di foto, e che la fotografia la praticava, come una sorta di documentazione della propria esistenza, Lonzi espresse, invece, un giudizio positivo. Contò qualcosa il fatto che nell’introduzione al suo libro Chinese avesse scritto: «Non basta, affermarsi vivendo?». Che è come dire, non bastano le lotte che la vita ci costringe ad ingaggiare, il nostro essere costrette a schierarci, se vogliamo sopravvivere, ad assicurarci la sopravvivenza? Di che altro c’è bisogno? Del successo, della fama?

C’è che Lonzi è in sintonia con questa domanda, e «si sente prossima a questo dubbio» nello stesso modo in cui invece, si sente «nella posizione di spettatrice, di mediatrice, di critica di fronte a un’opera d’arte», per ciò che riguarda il lavoro di Accardi, dice Martini. E oggi, chiedo io? È vero che, come dice Chinese, «Basta, affermarsi vivendo?». Non dovremmo, insisto a chiedere io, porci ogni tanto anche noi, questo dubbio? È giusto (e scusate se approfitto dell’ambito offerto da una recensione per fare queste domande) andare avanti, con dei Pantheon che, forse esistono solo nella nostra testa, sorta di sondino per tenerci in vita, roba che serve ad alimentare (avrebbe detto Lonzi) solo «un sistema artistico-patriarcale»? Chiedo. Varrà la pena, di questi tempi, (per chi legge e soprattutto per chi scrive, o più in generale, per chiunque si diverta o si angosci a praticare delle arti), riproporre la domanda sul senso della propria attività, come Lonzi ha fatto?

E alla questione, se esista la possibilità di un’affermazione artistica, che sia in qualche modo pura, sganciata cioè da un capitalismo, diventato via via, sempre più pervasivo e invadente, risponde nel suo saggio, Cristina Morini, quando afferma: «La vita oggi viene disposta in funzione dei bisogni e degli imperativi dell’impresa, cosicché, non casualmente, le tensioni non detonano più semplicemente nel lavoro». E aggiunge, portando il discorso a un nodo politico che oggi è centrale, che «se è vero (…) che la sfera del lavoro si è ormai estesa anche al tempo della vita (…) è necessario puntare a fare (…) degli stessi ambiti, relazionali, culturali, sessuali, di scambio emotivo, di formazione e autoformazione il nuovo terreno dello scontro politico». Che è una riaffermazione del tema: è definitivamente saltata la divaricazione tra tempo di vita e tempo di lavoro, ed è da lì che si deve ripartire.

Indaga il rapporto con la lingua madre, la lingua dei «vinti», il testo di Claire Fontaine, e l’importanza che, in un universo in cui non ci siano parole per dirlo, assumono i gesti (e «quello femminista» che dà il titolo al libro, nello specifico). Così come le diverse condizioni di esercizio della sessualità, a partire da un diverso «apparato», vengono analizzate da Stefania Consigliere e Lelia Pisani:  e risulta evidente, anche se non detto – o quasi mai, detto – che la figa di una donna infibulata sarà diversa da quella di una trans.

Libro essenziale questo, per chiunque, uomo o donna, sia interessato(a) o bisognoso(a) a/di bibliografie, informazioni, date, nomi, foto, sull’arte e la critica del pensiero femminista, almeno per ciò che va dalla metà dei Sessanta a oggi. Molti i nomi ricorrenti, nei due testi curati, con attenzione, rispettivamente da Raffaella Perna e Francesca Gallo. Si va dalla performance Vagina Painting di Shigeko Kubota, che è del 1965, e passando per la famosissima e gigantesca Hon di Niki de Saint-Phalle, fino a Stigma, di Chiara Mu, che è del 2012, un’”azione” in cui l’autrice, servendosi di testi ispirati alla cronaca e che riguardano violenze domestiche, chiama in causa, per strada i passanti, in un rapporto, come è definito, vis a vis. Libro essenziale per le foto (tante) che contiene, d’archivio, ma non solo, questo Il gesto femminista. Importante per il ruolo, che le foto, come documenti immediatamente circolanti, hanno giocato nella costruzione dell’identità di chi ha vissuto durante quegli anni, e per chi viene dopo.

E se, come dice Silvia Bordini, le foto «si intrecciavano con un continuo slittamento tra l’estetico e il politico, la documentazione e l’autobiografico, l’oggetto e il narcisismo», viene voglia di chiedersi, in un’epoca come la nostra, in cui la documentazione sulla propria esistenza è diventata così facile, (grazie alla tecnologia), quali cambiamenti siano intervenuti, e che caratteristiche abbiano prodotto. Non per un mero esercizio agiografico, o per una celebrazione dei nostri ieri, rispetto a un oggi che (non) ci piace, ma nel tentativo, invece, di definire il perché, di tanta rimozione. Rimozione che (tema che approfondisce Anna Curcio) – a fronte delle tante conquiste fatte negli anni scorsi – ha oggi, come era inevitabile, peggiorato anche la vita degli uomini. Una rimozione che ha prodotto peggioramenti per tutti, (vedi il capitolo lavoro, con il mancato sviluppo del tema dell’insubordinazione) quando non veri e propri guai (come nel caso del femminicidio). Fenomeno, quest’ultimo, che è da considerarsi, a mio parere, uno degli esiti possibili e tragici, dell’interruzione di una modalità di riflessione e di discussione – per ciò che riguarda le convivenze –  che è andata avanti, da un certo punto in poi, solo a partire dalle pagine di cronaca, sui giornali.

Ancora due cose sulle foto: il libro non contiene solo foto di Paola Agosti e Agnese De Donato, ma entrambe le autrici si raccontano. E se la prima, ricorda frasi e brani presi dalle manifestazioni, come ulteriore testimonianza di un modo di stare al mondo («Neanche un po’ di odio», dice una delle tante scritte che ha incluso nel suo pezzo), la seconda ci ricorda la libertà che può assicurare (una libertà in cui molte si ritroveranno) a una donna, la conoscenza di una strumentazione tecnica, quale essa sia: «In quel borsone, c’è la mia prima Nikon F con il 24, il 50, il 105, uno zoom e un grandangolo», dice. Contiene indicazioni su materiali di archivio anche il pezzo della regista Alina Marazzi, che, (oltre a raccontarci come sia arrivata alla realizzazione del suo bel documentario Vogliamo anche le rose), parla degli anni settanta come di una «stagione… generatrice di tanti femminismi, piuttosto che di un unico movimento femminista compatto e unitario». A raccontare che cosa sia e cosa rappresenti «il gesto femminista» oggi, per donne di diverse età, (fra cui anche alcune nate all’inizio degli anni 80), c’è il testo di un seminario che si è svolto a Bologna tra il 2013 e il 2014 (quello di Collettiva XXX).

E per chiudere, voglio adesso riportare un brano scritto da Letizia Paolozzi nel suo «Ma lui finge di essere sordo». Brano in cui l’autrice parla delle reazioni degli uomini davanti al «gesto femminista», allora: «(sordo) magari lo è veramente», racconta. «Non gli importa granché delle recriminazioni delle “compagne”; del ridicolo braccio di ferro che pare l’altra metà del cielo abbia ingaggiato con l’antico dualismo cartesiano mente-corpo. Piuttosto lo preoccupa l’esplosione di una fastidiosa tendenza a criticare l’organizzazione virile della Città da parte di quante gli erano (fino a un minuto prima) fedeli nella buona e nella cattiva sorte, nelle lotte e nella repressione». La domanda che faccio io, a tutte, è: «Ma gli erano davvero fedeli, come sembravano, quelle donne? E, se sì, che cosa è cambiato, oggi? Che ne è di quella fedeltà, se mai c’è stata?».

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