Giuseppe Giglio
Un romanzo pubblicato da Gaffi

La famiglia felice

«Nella casa di vetro» di Giuseppe Munforte il protagonista, Davide, vede come chiusa in una bolla la sua vita e quella dei suoi cari. Per capire che la felicità è leggerezza

Si avverte subito come un senso di ritrovata leggerezza, leggendo Nella casa di vetro, il nuovo romanzo (il quinto, dopo: Meridiano,1998, La prima regola di Clay, 2008; Cantico della galera,2011; La resurrezione di Van Gogh, 2013) di Giuseppe Munforte, da poco in libreria per i tipi di Gaffi. Una leggerezza che conferma un narratore di razza, e che innerva una storia di delicata intelligenza. Di un’intelligenza (direi, meglio) tattile, che sfiora appena le cose e gli uomini, quasi ad accarezzarli, come ad auscultare i suoni della vita, nei labirinti della quotidiana esistenza; come a captare ogni vibrazione che dalla materia (un muro, una strada, un palazzo, un parco, persino una panetteria, con tutti i suoi macchinari…) di quei labirinti proviene, così carica di vissuto. E pare dipanarsi, questa leggerezza, da una favola inaspettata, da una insolita preghiera: a dar corpo e sangue ad ogni brandello di memoria che custodisce la vita di una famiglia, ad ogni attimo di felicità di quei genitori, dei loro figli. Come a preservarli, quei brandelli, quegli attimi. Per evitarne ogni dispersione. In un tempo come quello odierno: così innaturalmente greve e veloce, così cieco ai fantasmi dell’immaginazione e sordo alle voci del cuore, così abituato a spacciare la ruggine per oro, di tanta moneta del vivere; quella ruggine che sempre più facilmente copre, insudicia le cose e gli uomini, a ridurli a blocchi di vuota materia interscambiabile.

nella casa di vetroE se da sempre Munforte racconta, nelle sue storie (entro cui rameggia un forte sentimento religioso: una preoccupazione, sempre viva, per l’uomo, per la sua dignità), la volontà di trattenere il bello e il bene, contro la pesantezza e le dissipazioni del vivere: come inveramento della vita stessa, come ciò che alla vita dà senso, non a caso in questo suo ultimo romanzo, peraltro di lunga gestazione, lo scrittore milanese pone una domanda urgente (lo dice Andrea Caterini, nell’emblematica bandella da lui stesso firmata) e fondamentale: «Cos’è una famiglia felice?». Una domanda che di per sé turba, inquieta, ma che può appartenere al vivere di tanti, se non di tutti. E che facilmente richiama l’indimenticabile incipit di Anna Karenina: «Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo». E se accade – oggi forse più che al tempo di Tolstoj – che la felicità, o ciò che tale sembra, coincida spesso con qualcosa di indistinto, di volgare, occorre allora ritrovare, riscoprire la felicità autentica, quella vertigine che tante ferite guarisce, e che di un’intera vita – pur in mezzo all’ipocrisia e al dolore, pur davanti alla morte ed all’assenza – può essere compimento, seppure nel tempo senza tempo di un attimo, di un’entelechia: in cui passato, presente e futuro vi sono raccolti e svolti.

munforteCome succede ai personaggi che animano la famiglia protagonista di questa nuova avventura morale di Giuseppe Munforte: a cominciare da Davide, padre di Andreas e marito di Elena, che insieme alla sua compagna cresce anche Sara, una bimba che lei aveva avuto da un altro uomo. Vivono tutti in una piccola casa piena di libri, una «casa rombante» dalle ampie vetrate, all’interno di un blocco di cemento, ferro e mattoni, sulla caotica e rumorosa tangenziale milanese: un palazzo forse costruito per gli operai di una vicina fabbrica di automobili che sta per chiudere, mentre i loro figli sono «senza lavoro o con un lavoro più furbo». Ed è, quella casa, «come un buco in un albero, dove riesci ancora ad infilare la mano», dice Davide alla sua compagna. Una casa che diventa, pagina dopo pagina, una robusta (pur nella sua fragilità) bolla che ha la trasparenza del vetro: nel segno di una palpabile sicurezza, di una protezione visibile, ma anche della (ri)scoperta, del sogno, cui non si può e non si deve rinunciare, proprio mentre si attraversano le paludi, e si rischia sulle sabbie mobili della vita. E ancor più quando un’improvvisa banalità del male infligge profonde ferite agli ospiti di quel nido, ai bambini soprattutto: che intanto si fanno adulti, e lasciano la loro casa, e conoscono le asprezze, i torbidi, gli inganni del vivere; ma hanno dietro e dentro un prezioso gruzzolo di memoria che li può salvare.

È anche la voce narrante, Davide. Ma con un punto di vista alquanto singolare: come di chi osserva i suoi, la vita, il mondo da fuori, da lontano. Così da poter meglio vedere, come fermando il tempo, come allontanandone l’urgenza, in un’agile e lieve altalena tra passato e presente, che continuamente si mescolano: e specialmente quando la vista approda alla visione, quando apre e  fonda nuove mete, quando – pur e proprio in mezzo ad una materia/mondo malata – porta l’odore buono delle persone e delle cose amate: quel profumo che ciascuno dovrebbe sempre avere con sé, come un invisibile ma insostituibile compagno di vita. Quel profumo, delicato eppure penetrante, che Davide e la piccola Sara avvertono in un parco della metropoli lombarda, «una domenica mattina di novembre, dentro un fuoco di foglie madide, e alberi quasi neri, puliti», mentre osservano in silenzio un uomo anziano, «cappello e giacca vecchi di vent’anni», che sgranella del pane secco per i cigni e le papere del laghetto.  Perché la vita, malgrado tutto, ricomincia sempre. Perché la vita è una corsa gioiosa.

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