Lidia Lombardi
“Rag blues e altre storie” a Ravenna Musica

Tre per Gershwin

Altra tappa della tournée dei fratelli Pieranunzi - Gabriele, primo violino del San Carlo e Enrico, grande pianista jazz - con Alessandro Carbonare, primo clarinetto di Santa Cecilia. Un programma cross over fra tradizione classica e jazz americano apprezzato da pubblico e critica

«Noi musicisti italiani abbiamo questo di particolare. Lavoriamo in grandi, blasonate orchestre, come capita a me, ma ci piace l’idea di essere protagonisti al cento per cento. Solisti, magari». Gabriele Pieranunzi sembra fare eco a un eccellente lungometraggio passato allo scorso Festival del Cinema di Roma. Ne Il carattere italiano sull’Orchestra e sui professori d’Orchestra di Santa Cecilia, si sottolineava il sentimento, la passione che fa apprezzare i nostri musicisti anche presso le grandi istituzioni musicali straniere. Ma se c’è qualche imperfezione, si deve anche – lo riconosce pure Sir Pappano, il direttore ceciliano – a quel pizzico di egocentrismo che tra i nostri non manca mai. «Del resto – osserva Pieranunzi – siamo la patria del belcanto, delle primedonne, dei soprani e dei tenori, ugole abituate a primeggiare in assolo».

Pieranunzi sta vivendo un’esaltante particolarissima esperienza che lo fa protagonista. Una tournée di concerti nel quale è affiancato, lui primo violino del San Carlo di Napoli, al fratello – vent’anni più grande – Enrico Pieranunzi, grande pianista jazz. Con loro un altro divo: Alessandro Carbonare, primo clarinetto di Santa Cecilia. Hanno portato in tutta Italia – il 7 maggio saranno a Ravenna, al Teatro Alighieri per la stagione curata dall’associazione Angelo Mariani, dopo aver fatto tappa a Roma, Vicenza, Napoli, Treviso, Genova – un programma popolare e raffinato insieme: Rag blues e altre storie con trascrizioni di brani fra tradizione classica europea e il jazz americano, eseguite da Enrico Pieranunzi su musiche tra gli altri di Gershwin.

Gabriele Pieranunzi, come è nata l’idea della tournée?

L’ha lanciata qualche anno fa Carbonare. Mi disse: col clarinetto non ho molto repertorio, Mozart, Copland e poco altro, perché non facciamo un programma con tuo fratello? Abbiamo cominciato suonando alla Iuc di Roma, al Verdi a Trieste, al Festival di Ravello. Sempre il tutto esaurito, per questo ora affrontiamo un tour, con un programma cross over, di musica classica. La contaminazione tra clarinetto, violino e piano jazz accende la curiosità di pubblico e critica.

i PieranunziLei e suo fratello, vent’anni di differenza, entrambi musicisti. Che storia è la vostra?

La storia di una famiglia dove la musica ha sempre regnato. Mio padre lavorava alle Poste e la sera suonava la chitarra nei night. Erano gli anni 60. Cominciò a far suonare mio fratello a cinque anni. Poi toccò a me, alla stessa età. Una dolce violenza impostami da papà e da Enrico. Presi lezioni private, mi diplomai sedicenne, ancora perfezionamento, l’incontro con Accardo… Insomma, una strada segnata dai miei. Una strada che costa fatica, continuo impegno intellettuale, anche se dà grandi soddisfazioni. Però non farei lo stesso con mio figlio.

Litiga con Enrico?

Spesso. C’è da parte sua una polemica tra il genere che fa lui e quello che affronto io. Mi dice: «Voi classici siete così chiusi che chiamate i jazzisti per avere più pubblico». Io rispondo che però sono sedi di concerti classici quelle nelle quali stiamo riscuotendo successo. Per fortuna poi arriva la musica: ci concentriamo sulle note, le scaramucce finiscono. E mi fa piacere questa collaborazione dopo venticinque anni.

Ne Il carattere italiano, che tra l’altro insegue i professori d’orchestra anche in squarci del loro privato, Carbonare appare nella casa di montagna, al ritorno da corse in salita utili a farsi il fiato per il clarinetto. Lei pure pratica sport?

Io vado a correre in un parco romano vicino alla mia abitazione. L’attività fisica serve a distendermi. Certo, non ho bisogno di allargare troppo i polmoni ma di allenarmi comunque. La tensione muscolare di un violinista è notevole, anche se non appare evidente.

Lei, romano, lavora al San Carlo di Napoli. Che cosa ne pensa dell’Opera di Roma?

Anche il San Carlo naviga in cattive acque ma non credo che correrà mai i rischi dell’Opera. È il teatro più bello del mondo, il più antico d’opera, l’unica Orchestra di Napoli, faro del Sud. Ne deriva un carisma che lo aiuta a galleggiare, in una situazione sempre caotica. A Roma la politica narcotizza tutto, sicché quando scoppia il bubbone è difficile rimediare. E poi nella Capitale c’è un’altra Orchestra, quella di Santa Cecilia, che ha più blasone. Anche se non è giusto, perché al Costanzi ci sono grandi professionalità. Peccato. Spero che la nuova gestione a marchio Fuortes porti finalmente risultati.

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