Erminia Pellecchia
Dopo Roma, nuovo omaggio al re del Pop art

L’asse Andy-Napoli

Fa discutere la grande mostra al Pan che ripercorre il lungo e fecondo rapporto tra Wahrol e la città. Le memorie riaffiorano malgrado un allestimento mal riusciuto

È il 1975 quando Andy Warhol viene per la prima volta a Napoli su invito di Lucio Amelio: vi si fermerà tre giorni. Il gallerista, dall’occhio attento alle novità del mercato estero e col cuore rivolto alla sua città che cerca di rilanciare nel circuito internazionale della cultura, era approdato a New York l’anno prima. Un’illuminazione potente: stessa longitudine ad accentuare la «similitudine incredibile tra le due metropoli, due grandi caldaie, due ribollitori di energia pronti ad esplodere». E un fattore pratico: la ricerca pittorica si è spostata dall’Europa all’America, nella Grande Mela c’è Leo Castelli, il collezionista che aveva colto la Pop Art sul nascere e che aveva contribuito alla rivoluzionaria Biennale del ’64.  C’è soprattutto Warhol che, proprio dal trampolino di Venezia, ha iniziato la conquista del Vecchio Continente, trovando sponda in Italia, nel salotto romano di Graziella Lonardi Buontempo, attenta osservatrice e promotrice dei fermenti contemporanei. La “Nuova Napoli” che, sul progetto messo in moto da intellettuali come Amelio, si sta proiettando verso il futuro, sembra pronta ad accogliere l’eversivo e poliedrico artista, già noto, grazie alle proiezioni dei suoi video sperimentali nel cineclub Cinema Altro, fondato da Mario Franco. Lucio, alla Factory, si fa ritrarre da Warhol in quattro serigrafie con quattro coloriture diverse, le scambia con una tela di Cy Twombly. Entrambi comunicatori carismatici si prendono subito, inizia un sodalizio perfetto ed un’avventura artistica sullo sfondo del Vesuvio.

warhol napoli4Il primo impatto di Andy con la “città bazar” che gli ricorda New York «specialmente per i tanti travestiti e per i rifiuti per strada» è documentato proprio da Mario Franco. Ed è dal video Andy Warhol eats, girato tra la galleria di Amelio a piazza dei Martiri ed un ristorante di piazza Dante – «fu accolto dall’indifferenza generale, ci rimase molto male», ricorda il critico-regista – che prende il via la mostra Vetrine fino al 20 luglio al Pan (info: 0817958604). Organizzata da “Spirale d’idee”, in collaborazione con il Comune di Napoli nell’ambito del Forum delle Culture, ripete il modulo dell’esposizione della scorsa estate a Porto Cervo con aggiunte napoletane. Che, purtroppo, malgrado la bella intuizione di Abo di aprire un focus sull’asse Warhol-Napoli, hanno il sapore di corpo estraneo, colpa di un allestimento approssimativo, confuso, reso non agevole dal labirinto degli ambienti del Pan, peraltro al massimo degrado. Non è un voler aggiungere fuoco alla polemica in atto sul se fosse necessario l’ennesimo Warhol, per di più in contemporanea con l’esposizione promossa a palazzo Cipolla dalla Fondazione Roma (clicca qui per leggere la recensione di Danilo Maestosi). È piuttosto un’amara riflessione che il numero straordinario di affluenza nel palazzo delle arti di via dei Mille – il padre dell’arte multimediale è un’icona che attira l’attenzione anche dei giovanissimi – non riesce a scalfire. Eduardo Cicelyn, erede spirituale di Amelio, boccia la mostra come «inutile, diseducativa, dozzinale». E di «basso profilo» parlano anche le numerose lettere inviate ai media: «Quadri appesi come se si trattasse del soggiorno di casa propria senza didascalie e supporti informativi». A vent’anni dalla morte di Amelio ci aspettavamo di più, dobbiamo rimandare alla mostra che gli dedicherà quest’autunno il Madre.

Veniamo a Vetrine col suo corpus di 150 opere: disegni, lavori unici, serigrafie in edizione limitata, acetati, polaroid e camouflage provenienti da collezioni private italiane. Il titolo, spiega Bonito Oliva, «nasce dall’esposizione di un nutrito gruppo di opere su carta tratto dalla serie Golden Shoes, realizzata da Warhol all’inizio della sua carriera nella Grande Mela quando, a metà degli anni Cinquanta, lavorava come grafico pubblicitario e vetrinista per i negozi di Madison Avenue; in particolare è un omaggio alla prima personale del ’61 allestita nelle vetrine di Bonwit Teller a New York, un modo per comprendere meglio anche quale sia stato il percorso che lo ha portato ad essere uno degli artisti simbolo del Novecento». Cinque le sezioni: quella con Marylin del 1967 e Marylin this is not by me («questa non è mia») del 1985, quelle con le cover anni Quaranta-Cinquanta e anni Sessanta-Ottanta più le copertine di Interview, quella con gli accessori di lusso (shoes diamond dust, disegni, scarpe e profumi) e, infine quella del supermercato con Campbell’s soap bi e tridimensionali, Brillo box e magliette.

Napoli appare qua e là, frammentata. Senza la guida di chi ha vissuto l’indimenticabile stagione di fine anni Settanta-inizio Ottanta, è difficile orientrsi. Il Virgilio è Mario Franco: «Warhol amava Napoli, il fuoco creativo che ha nelle viscere, il convivere fatalistico con la morte. Non c’è una Parigi, una Londra di Warhol, c’è la Napoli Warhol, col suo sterminator Vesuvio, la cui immagine replica ossessivamente in colori diversi». Per l’artista di Pittsburgh «a’ Muntagna» è la forza della natura, «molto più di un mito, una cosa terribilmente reale». Così, accanto ai ritratti di vip napoletani come la Lonardi, Ernesto Esposito (molte opere in mostra provengono dalla sua preziosa Wunderkammer), Peppino di Bernardo, lo stesso Amelio, troviamo alcuni Vesuvius, realizzati per l’esposizione di Capodimonte del 1985 (in prestito al Pan), coloratissimi nella tecnica usata per le Marylin e le Liz. Dopo l’attentato subito nel 1968 e a cui era scampato per un pelo, Andy è attratto e terrorizzato dalle catastrofi, «cieche e ingovernabili».

warhol napoli3Il monumento è Fate presto, nato all’indomani del terremoto in Irpinia del 1980. Warhol è coinvolto da Amelio nel progetto «Terrae Motus», farà della gigantografia tratta dalla drammatica prima pagina del Mattino dal titolo oscar di Roberto Ciuni, una lapide eterna, un polittico d’altare. Il capolavoro è stato messo a disposizione dalla Reggia di Caserta, dove è custodita l’intera quadreria di Terrae Motus.

Su una piccola parete campeggia, isolato, il ritratto di Joseph Beuys. Il freddo, seriale Warhol e il romantico, demiurgico Beuys si erano conosciuti a Dusseldorf il 18 maggio 1979, quando l’artista tedesco si era candidato, tra i Verdi, al Parlamento. Dalle fotografie scattate in questa occasione da Warhol nascono i ritratti che saranno esposti in anteprima, la primavera del 1980 da Amelio, amico ed estimatore di Beuys sin dal ’71. Lucio dà vita ad un’operazione singolare, mettere uno di fronte all’altro le opposte anime della contemporaneità: la pop art del tardo capitalismo americano e l’arte concettuale di una Mittleuropa politicamente divisa e in cerca di riscatto del proprio recente passato e delle false ideologie.

warhol napoli5Sarà un successo culminato nella memorabile festa al City Hall Café, bagno di folla, conigliette partenopee, Andy che disegna il dollaro su braccia e décolleté, Joseph che autografa cappelli mentre Leopoldo Mastelloni dà vita ad uno show carnale. Il soggiorno a Napoli questa volta è più lungo. Warhol adora i vicoli, è attirato in particolare dai femminielli, versione partenopea delle drag queen dei bassifondi newyorkesi che gli hanno fatto da modelle per la serie Ladies and Gentleman del 1975. Le ritroviamo al Pan a far da contraltare ai giovanissimi efebi del golfo delle Sirene: due disegni su commissione di Amelio a partire dalle fotografie di Wilhelm von Gloeden acquistate dal gallerista e da lui pubblicate nel 1978 in un volume con testi di Roland Barthes. Piccole e gustose chicche, infine, le Napoliroid, scattate da Warhol in giro per la città con la sua inseparabile Polaroid: una macchina nel traffico, una donna che posa con lui, la torre sulla spiaggetta di fronte a Giuseppone a Mare, gente che attraversa la strada per raggiungere la villa comunale: una sorta di diaframma, chiarisce Abo, tra il mondo esterno e sé, una liaison immaginaria tra Napoli e New York.

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