Pier Mario Fasanotti
Padri contro figli/2

Il morbo dell’Io

Siamo vittime del primato dei bisogni individuali. Da qui nascono adolescenti problematici (come spiega nel suo nuovo saggio Vittorino Andreoli) e genitori falliti (come dimostra lo studioso americano Laurence Steinberg)

Ormai, quando si pronuncia la parola adolescenza c’è in ognuno di noi una sorta di scossa. Non è un fenomeno recentissimo. Lo è invece l’indagare su come e perché siamo mutati, rispetto alla generazione precedente, i ragazzi che una volta venivano classificati, con una buona dose di accondiscendenza o buon senso, come ormonalmente vivaci. Aumentano sempre di più saggi e inchieste giornalistiche sul disagio giovanile, come se ci trovassimo dinanzi a figli che mentalmente danno l’inquietante sensazione di essere degli alieni. Prima conseguenza: è difficile, talvolta impossibile, comunicare con una “razza” diversa. Di qui altre conseguenze: va in crisi il concetto di autorità genitoriale, in specie quella paterna (da più parti si afferma che il padre è “assente” non tanto per non volontà di esserci, quanto per impotenza educativa), traballa, ammesso che esista ancora, il concetto di progetto, quindi di futuro.

Scatta l’allarme sociale: dove andremo a finire se i nostri figli, afferrati di continuo da emozioni (indotte largamente da internet e associati) ma lontani dai sentimenti (che a differenza delle emozioni sono stati permanenti e in grado di evolversi)? E ancora: noi, colpevoli di dare ininterrotti esempi negativi (brutta politica, comunque non credibile, corruzione, mafie, scarso senso civico, eccetera), siamo (ancora) in grado di corregge la linea discendente che segnala, a parte fortunate minoranze, una mutazione degenerativa del ciclo sociale? Significativo il titolo dell’ultimo libro dello psichiatra e psicoterapeuta Vittorino Andreoli: L’educazione(im)possibile. Sottotilo: «Orientarsi in una società senza padri». È appena uscito da Rizzoli (212 pagine, 18,50 euro). Quella parentesi nel titolo è molto triste. Andreoli, oggi uno dei massimi esperti del comportamento umano, con esperienze di rilievo nel mondo accademico anglosassone, offre un altro segno di scetticismo allorquando, dopo aver esaminato, con lucidità radicale, le storture del contesto sociale, confessa di poter concludere qui la sua trattazione. Come dire: sui rimedi immaginabili o sperabili, sono così deluso da dichiararmi pressoché incapace di indicare farmaci dell’anima. Tuttavia non abdica al suo compito di studioso non demolitore e pone l’accento sulla “follia” di aver messo, da Freud in poi, l’accento sull’Io e non sul Noi.

vittorino andreoliScrive: «Può sembrare un ossimoro, dopo aver posto l’Io, la singolarità, al centro del processo di apprendimento di quanto misura il mondo (di tutte le cose, direbbe Parmenide), parlare del Noi e della necessità di giungere a un’unità fatta da molti Io». Andreoli si dice convinto che nel campo dell’educazione il cosiddetto «dominio dell’Io» ha causato «il conflitto, la figura del nemico, il bisogno del successo, che significa superare l’altro con tutti i mezzi possibili poiché l’altro è diventato l’elemento di confronto e dunque anche di frustrazione per non saperlo non solo emulare, ma superare». L’ossessione dell’Io genera invidia. Andreoli è quanto mai tranchant riguardo a questo, e non solo a questo: «…il delirio della psicologia dell’Io che ormai domina da più di un secolo, dal 1900, anno della pubblicazione della Interpretazione dei sogni di Freud con cui, almeno convenzionalmente si fa nascere la psicoanalisi. Una dottrina fondata sull’Io e sul principio della soddisfazione dei bisogni singoli come via per giungere alla felicità: e in questo processo sia l’altro che il Noi non hanno grande rilievo». Afferma ancora che il morbo dell’Io, come totem o come unico balsamo, «limita la vita sociale degli esseri umani e la rende violenta».

Andreoli riprende poi un tema che ha esaminato in un suo precedente libro (L’uomo di vetro) in cui spiegava la differenza tra fragilità e la debolezza: «La debolezza è una condizione in cui la forza è diminuita fino all’impotenza», mentre «la fragilità innanzitutto non si lega all’età, semmai alle condizioni esistenziali dell’uomo, ai limiti di tutta la sua storia; e la morte è certamente il più drammatico». Pare di capire che oggi, in questa allarmante condizione non solo dei giovani ma anche dei loro padri, stia svanendo il concetto del limite, così caro agli antichi filosofi greci.

Tra i bersagli della disanima di Andreoli figura anche la scuola che «non ha mai perduto la propria dimensione di luogo del sapere e dell’esempio, ma nel contempo ha mantenuto fermo l’imperativo di chiudere i giovani dentro il conservatorismo, senza nemmeno accorgersi del fallimento culturale cui si stava avviando con l’effetto di demotivare la famiglia a iscrivere i propri figli». Esiste un rapporto abbastanza stretto tra famiglia e scuola. «Un padre violento contribuisce a formare un figlio violento; un insegnante può usare una violenza dalle belle maniere, manipolando con i voti, veri e propri schiaffi e talora strumenti di tortura». Serpeggia nella società quel che si chiama «disturbo dipendente di personalità»: è una contraddizione educativa, insiste Andreoli, di grandi proporzioni, che sembra non essere nemmeno percepita: «Viviamo in una società che da un lato tende a fare del giovane “integrato”, un “dipendente” dal padre e dalle leggi sociali, e dall’altro rifiuta la passività e le dipendenze da sostanze oppure da particolari stili di vita». Se tutto questo si inserisce, in Italia, in «una democrazia di nome» e non di fatto, la situazione peggiora e si ricorre sempre più spesso a generiche pre-diagnosi fino ad arrivare alla formulazione di “anormale” e di “malato di mente” solo perché i ragazzi non si piegano all’obbedienza verso i padri.

Assistiamo al proliferare degli “idiots savant”: «Il sapere diventa una recita, una sorta di trucco applicato senza stile e con la totale mancanza di senso estetico e di charme». Tra i genitori è in crescita la tendenza all’abbandono formativo: «All’educare si sostituisce il progetto di una non educazione, ritenuto il criterio meno lesivo per i figli e meno angoscioso per gli adulti». Insomma viviamo in una forma di minimalismo «che non esige nulla, come buttare un seme senza preoccuparsi se cada su un terreno fertile e se venga poi coltivato per ottenere frutti». Non è dunque un errore, o un allarmismo, parlare di «astensione educativa». Ne consegue la formazione di una «società senza famiglia». I dati non confortano certamente: il 50 per cento dei matrimoni si è sciolto, del 50 che resiste, la metà è divisa di fatto e non ricorre alla formalizzazione per difficoltà economiche; «dunque solo il 25 per cento delle unioni matrimoniali resiste». Un po’ poco, per non dire altro. Esistono poi diversificazioni comportamentali come «la follia del papà-mammo» e l’avanzata della tecnologia, in realtà molto utile, ma anche dannosa se il vivere dentro la “rete” sia la via maestra verso la frammentazione del linguaggio, la solitudine, le emozioni brevi, l’assoluta incapacità di elaborare valori e sentimenti.

Laurence SteinbergLaurence Steinberg (Temple University, nella foto), uno studioso americano molto seguito oltreoceano – e questo lo apprendiamo da una certa stampa Usa – sostiene che «i cambiamenti ormonali della pubertà hanno un effetto modesto sul comportamento dei ragazzi. Le ribellioni durante l’adolescenza sono l’eccezione, non la norma». Giusto, verissimo. Ma Steinberg non considera l’afasia emotiva degli adolescenti. Perché misurare il disagio dell’ultima generazione secondo soltanto il grafico della rivolta o della violenza sociale? In ogni caso il saggista americano sostiene una cosa molto importante: per i genitori la situazione è molto complicata. Nel suo saggio intitolato Crossing paths, Steinberg, afferma che il 40 per cento dei genitori ha cominciato ad avere problemi di salute mentale quando il primo figlio è entrato nell’adolescenza. Gli intervistati ammettevano di sentirsi rifiutati e denunciavano un calo dell’autostima, un peggioramento della vita sessuale e un aumento dei sintomi fisici di malessere e di tensione. Colpa della mezza età? Troppo facile per essere vero. La fonte vera del disagio è l’adolescente come variabile che fa impazzire la traiettoria di un percorso di vita. Col rischio che certi padri passino dallo stupore doloroso a una pericolosa tentazione a diventare “carcerieri”.

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