Nicola Fano
Un libro pubblicato da Giunti

Storia delle colpe

“Come fossi solo” di Marco Magini è un romanzo forte e bello sulla strage di Srebrenica. Un modo giusto per parlare di questa nostra società ormai capace solo di sfuggire qualunque propria responsabilità

Qui da noi non si scrivono più romanzi sulla guerra. Nella “pacificata” Europa, non servono più trame di guerra per esprimere metafore assolute di uomini (o principi) in conflitto. Segno che la guerra guerreggiata, ossia quella propriamente detta, è andata sullo sfondo del nostro immaginario, o segno che agli scontri bellici si sono sostituite altre battaglie non meno cruente e non meno simboliche? Forse non è sbagliato ripensare ad alcuni eventi che hanno segnato e segnano il nostro quotidiano: chi parla più di quel che succede in Siria? E chi del sangue scorso (o minacciato) in Ucraina? E chi di tutti quei professionisti della guerra che lavorano, vendono armi, addestrano povera gente e in un modo o nell’altra prosperano lucrando sugli altrui conflitti? Insomma, la guerra è qui e ora, dentro di noi, alla nostra memoria immediata e ai nostri interessi economici.

marco magini come fossi soloPer questo ho apprezzato particolarmente un romanzo italiano che affronta la questione prendendola di petto e restando fuori dal coro. Parlo di Come fossi solo di Marco Magini (Giunti, 216 pagine, 14 euro), un libro potente che non concede spazio alle mode e che non si nasconde dietro a un dito. Un libro sulla guerra. Che la affronta e la usa come una realtà e una metafora al tempo stesso: una cosa che sarebbe potuta accadere tranquillamente dall’Ottocento fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, ma che oggi non suona affatto nostalgica. Anche perché la guerra in questione è la più vicina a noi possibile: quella che si è combattuta, tra uno spot e l’altro, a pochi chilometri da qui, nella ex-Jugoslavia. E mi sembra normale che questo libro sia stato scritto non da uno scrittore “professionista” ma da un trentenne che si occupa di clima ed economie sostenibili.

Il romanzo di Magini (che, per altro, non usa parole di troppo, né dà per scontato un eventuale pacifismo acritico) si concentra su tre personaggi. Un giudice spagnolo del tribunale internazionale chiamato a giudicare i crimini di guerra; un militare dell’Onu che non ha evitato i crimini di guerra (benché questa fosse la sua precipua missione); un giovane (ex-)fanatico che, unico fra tanti, si è dichiarato responsabile di uno dei quei crimini: la strage di Srebrenica. Perché è di questo che si parla: del massacro di migliaia di musulmani bosniaci uccisi dai serbi-bosniaci del terribile Ratko Mladic e dalle milizie di Arkan nel luglio del 1995 a Srebrenica, in un territorio allora posto sotto il controllo diretto dell’Onu e delle sue truppe.

È difficile parteggiare per qualcuno, in questo romanzo. Il giudice è un professionista che non crede più nella giustizia, tanto meno in quella internazionale, e cionondimeno esercita il suo potere ed espleta i suoi riti. Il soldato Onu cerca solo di scansare le sue responsabilità che, al massimo, sono comuni e non individuali. Il militante serbo assume un tono da martire, da capro espiatorio alla maniera di René Girard, ma ha un passato macchiato di orrori. Insomma, questo di Magini è un romanzo sulle responsabilità condivise: un romanzo sulla guerra e sull’impossibilità di separare il bene dal male, il giusto dall’ingiusto. Eppure la colpa non è di tutti; ma di ciascuno per la propria parte. Questa è – mi sembra – la conclusione dell’autore. A cui vanno dati due meriti. Primo: quello di essersi misurato con un modello narrativa (il romanzo di guerra) difficilissimo. Secondo: aver riportato alla ribalta una delle pagine più cruente e terribili della storia recente; capitata nel disinteresse generale per le vittime.

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