Giuseppe Giglio
I versi del «Fumo bianco»

Le storie di Paris

La nuova raccolta di Renzo Paris svela la vita così com'è, senza «oscurità lampeggianti». Tra la Marsica dell’infanzia, innocente, magica, verginale, e la Roma di oggi

C’è una poesia diretta, naturale, «onesta», cioè vicina agli uomini e alle cose. E lontana dalle sirene novecentesche della complicazione, dell’ermetismo, dell’«oscurità lampeggiante», per dirla con Baldacci. Una poesia che è il frutto prezioso di quell’«artigiano del quotidiano» che per Saba è il poeta, ovvero di quella voce della vita e del sentimento che cerca di dar forma all’autenticità dell’esistere. E la si ritrova, questa poesia, ne Il fumo bianco (Elliot, 2013), la nuova silloge di Renzo Paris (classe 1944), che raccoglie i versi inediti di un ventennio (1990-2012) di attività del poeta (ma anche romanziere e critico) marsicano trapiantato a Roma. Un poeta che da sempre ascolta la voce antica che «detta dentro», e nomina persone, fatti e cose, piuttosto che suggerirli. Nel segno di una poesia famigliare, colloquiale, intima (cui aveva già dato voce in Album di famiglia – Guanda, 1990: il fortunato volume che raccoglieva, anch’esso, due decenni di versi, a partire dagli anni Settanta); di una poesia che è «una cosa da ragazzi»: non nel senso denigratorio che vi scorgeva Rimbaud, ma quale condizione privilegiata per narrare dell’uomo e del mondo nel loro continuo divenire, per scovare,  in quel flusso incessante, tracce di vita che a ciascuno possono appartenere, al di là del tempo toccato in sorte.

Racconta molte storie, Paris, in questo suo nuovo polittico. Storie piene di garbo e leggerezza, semplicità e candore. Storie che si sgranano entro un teatro della memoria che va crollando, che si va sfarinando: «È la memoria / il pianeta che muore», dice il poeta in Il pianeta interiore. Laddove la sua «truccata biografia» dà corpo e sangue ad un io poetico che non è «né giovane né vecchio», «immerso nel secchio del vino delle aurore / in un tempo bambino». E così il lettore scopre un «Amleto in formato mignon», dubbioso sì, ma ironico, leggero, rappacificato:  che ha già percorso buona parte della vita, ma che non ha mai perso la curiosità e il sorriso dei bambini; e anzi ne ha conservata intatta la capacità di vedere (e di vivere) la semplicità dell’esistenza: della natura, delle cose, degli uomini, pur (e proprio) in mezzo alle difficoltà della vita, alle violenze della storia e delle ideologie, al dolore pubblico e privato. «Aiutatemi a uscire dalle fiamme del / secolo degli orrori», chiede il poeta (nei panni di Anchise) ai propri figli: ai quali insegna «la vecchia / umanità, che conosceva i terremoti / e le morti naturali e quand’era festa / danzava sui prati in fiore». E ha il sospetto, quest’io narrante/ragazzo a vita, che il tempo «somigli a un astuto patto / di sangue perché nascano sogni / e dimenticanze», come entro un sottile, gioioso gioco di ritorni, di coincidenze, di rispondenze tra nuovo e antico, tra passato e presente. Lui così abituato a raccogliere le confidenze (e le licenze) di Catullo o di Persio, come quelle di Corbière o di Apollinaire. Lui che ha avuto «in pegno» le «affilate lingue della vita» da Sandro Penna o da Elsa Morante, da Amelia Rosselli o da Pier Paolo Pasolini. Da entusiasta e instancabile praticante di quella «sintassi della vita, del mondo, dell’uomo, di tutti gli uomini» che è, borgesianamente, la letteratura. Da amante infaticabile e aggraziato, che non teme la morte (e sa di esserne, oramai, «una grande attrazione»), e che all’amata sussurra: «La poesia ci svela la penuria / della vita».

«Si è come si è stati nei primi dieci anni della vita», diceva Sciascia. E pare confermarlo anche Paris, in questo suo viaggio a spirale attraverso luoghi e tempi e spazi che felicemente si sciolgono in metafore di un modo di essere, di stare al mondo. Tra la Marsica dell’infanzia: innocente, magica, verginale, e la Roma di oggi: dove «il grande garage della / modernità» continuamente insidia le «sterminate antichità». Tra il fumo bianco  che si sprigiona dalle rovine del terribile terremoto aquilano (là un bimbo sopravvissuto e cieco «non riconosce / ma vede le ombre dei morti»): emblema di uno sconvolgimento interiore, altrettanto distruttivo, e il «sole bianco» della Finlandia (assai frequentata): dove il poeta avverte la presenza dei «tonitu», che tanto somigliano ai «mazzamurelli marsicani», gli «sciancati folletti» della sua infanzia. E Paris, come chiudendo il cerchio, sembra lasciare al lettore un’utopia, un sogno. Rappreso e cristallizzato, quel sogno, in questa domanda: «Ma il mondo è ancora e sempre / salvato dagli occhi di un bambino?».

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