Eleonora Negro
Lettera dall'Ungheria

Le scarpe della memoria

A Budapest, lungo il Danubio, c'è un monumento alla Shoa molto suggestivo: sessanta paia di scarpe ricordano di addii forzati in una terra ancora oggi piena di (troppe) contraddizioni

Ho camminato per le vie di Budapest e, ad ogni passo, ho respirato storia. Poche città, come quelle dell’Europa dell’est, riescono a trasudare emozioni, cicatrici, ricordi di storia passata. Nessuna al pari di Budapest ricorda e mostra i propri lividi in modo tanto sobrio ma ugualmente martellante. Madre naturale o adottiva di due popoli (ungherese e israelitico), protagonista di ogni era, malinconica, ferita, riflette però a primo impatto i tratti di quella storia moderna che l’ha più segnata nell’anima. L’olocausto. Ho attraversato le vie del quartiere ebraico, centro di contenimento di quelle anime “diverse” perseguitate, per credenza, appartenenza religiosa, durante il secondo conflitto mondiale e ogni casa, ogni via, ogni bettola, ogni piccolo dettaglio continuava a gridare, lungo tutto il mio percorso: non dimenticate!

«Un popolo che ignora il proprio passato non saprà mai nulla del proprio presente» scriveva Indro Montanelli: a pensarci bene è questo che accade sempre più spesso nella nostra società. Si dimentica il passato, per mancanza d’insegnamento e cultura, o, forse, volontariamente si cerca di sotterrarlo per convenienza, vergogna.

albero della vita. budapestjpgHo osservato con rispetto e ammirazione L’albero della vita: salice piangente in argento di Imre Varga sistemato nel cortile della Sinagoga Dohany (la più grande d’Europa, costruita tra il 1854 e il 1859). Ogni piccola foglia d’argento rappresenta una persona, una vita, un progetto, dei sogni. Tutto spazzato via come da una folata di vento d’autunno. Ho lasciato alle mie spalle il Parlamento, imponente, maestoso ed elegante volto del “potere” attuale. Mi sono avvicinata agli argini del fiume e, stupita, confusa, ho notato sulla banchina, in basso, lungo il Danubio, una serie infinita di scarpe, lasciate li, quasi dimenticate.

Ho sceso gli scalini con fare frettoloso, vogliosa di comprendere ciò che si stava aprendo davanti ai miei occhi. Quaranta metri di banchina, 60 paia di scarpe di bronzo arrugginito, annerito, logorato dalle intemperie, 60 paia di scarpe che sembrano vere, 60 paia di scarpe che tolgono il respiro. Mi guardo intorno in cerca di un’indicazione di quanto ai miei piedi. Una targa spiega in lingua ungherese e inglese, per quei pochi turisti capaci di raggiungere questo gioiello della storia tanto nascosto allo sguardo della città, il senso del monumento. È il memoriale dell’eccidio ebraico avvenuto nell’inverno tra il ’44 e il ’45. Il Male in Ungheria aveva il nome di Croci Frecciate. Così s’identificava la milizia che collaborò con i nazisti nel processo di deportazione e assassinio di migliaia di ebrei ungheresi. Dopo averli rinchiusi, imprigionati in casa loro, tra gli alti muri del ghetto, lasciati a morire di fame, freddo e malattia o deportati nei più vicini campi di concentramento, i “potenti di Budapest” decisero di assassinare le proprie vittime in città. Niente fosse comuni, il Danubio fu reso complice di tanto massacro. Torturati, violentati, erano poi trascinati sulle sponde di Pest, sguardo verso il fiume, derubati delle proprie scarpe, merce preziosa, simbolo di fuga, viaggio, libertà, e della propria dignità.

scarpe budapest2Legati a gruppi di tre, era solo colui che capitava al centro il predestinato a una morte immediata per mano di una pallottola. Scaraventati in acqua, gli altri erano trascinati a fondo, nella corrente, dal peso inerme del cadavere. Nessuno era risparmiato. Nessuna pietà per donne, anziani, tanto meno bambini. Le scarpe sono tornate lungo il Danubio nel 2005 per desiderio e genio dello scultore Pauer Gyula affinché nessuno potesse dimenticare. Un memoriale minimale, piccolo che sparisce nelle dimensioni dei palazzi e del fiume della città, ma che allo stesso tempo colpisce dritto al cuore come una delle più grandi opere dell’uomo. Le guardo, alcune infiorate, altre contenenti preghiere silenziose, ed è come se le anime perdute di quella gente vaghino ancora in modo perpetuo.

Le sento passare accanto come un soffio d’aria. Mi commuovo. Trattengo il fiato per non fare rumore e il silenzio restituisce il mormorio del fiume, così carico di voci. Guardo il cielo bianco, piange e le sue lacrime diventano presto neve. Ringrazio per la neve che scende, così puntuale e tempestiva, smussa gli angoli, porta pulizia, candore, un senso d’innocenza necessaria e forse ce ne sarebbe bisogno…adesso, un po’ di più.

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