Andrea Carraro
La seconda puntata di "Sacrificio"

I fantasmi di Roma

Prosegue la pubblicazione del racconto lungo inedito di Andrea Carraro. Una storia di dolore e di dedizione, con una Roma disastrata distesa sullo sfondo

Passeggia e fuma, in zone limitrofe del suo quartiere. Lambisce un campo da gioco di terra rossa. Sa che la debolezza di sua figlia viene anche da lui, n’è fin troppo consapevole. Lui ha cercato di non farle mai mancare l’autostima, l’ha sempre appoggiata-incoraggiata nei suoi talenti, fu lui a portarla la prima volta al Centro musicale. Però non ha mai speso parole contro la droga, anzi con i suoi fottuti miti rock e beat, con le sue campagne per la liberazione delle droghe leggere, forse l’ha perfino incoraggiata. Mentre pensa questo guarda un ciccione con una maglia granata aderente che gli finisce a metà della panza che dice: “Coddio, me volete aspetta’…”

Arriva all’ingresso di Vill’Ada, che spunta, in varie gradazioni di verde, oltre un muretto alto un paio di metri bruttato da goffi graffiti. Si appoggia al tronco di una quercia e si lascia andare ai ricordi che gli stanno montando dentro. Anche allora, a vent’anni, soffriva Giorgio, ma allora soffriva per se stesso. Alito cattivo, capelli che cadevano a mazzi, e lui allora, per nascondere la calvizie incipiente, se li gonfiava in un modo davvero ridicolo, tanto che Goffredo lo chiamava sadicamente – e lo chiama tuttora – Ciuffettino (per via del ciuffo sulla fronte che avanzava proporzionalmente alla stempiatura). Nei momenti più impensati, gli tirava su il ciuffo in modo da scoprire la stempia (come si diceva allora fra loro). Lo faceva anche davanti alle ragazze. Giorgio ci soffriva. Un giorno in macchina gli disse: «Sai, Goffredo, noi non diventeremo mai amici se tu continui a chiamarmi a quel modo». Gli spiegò confusamente quello che aveva, il misterioso male che lo tormentava e gli faceva perdere i capelli. Lui forse non capì, ma smise per un po’ di chiamarlo Ciuffettino, diventarono amici. Si facevano chiacchierate sotto casa, in macchina, fino alle quattro di notte, certe volte tiravano mattino e andavano a fare colazione all’alba al Paris bar o da Romoli. Passavano ore al telefono a raccontarsi chissà che… La madre di Goffredo ogni tanto urlava: “E basta con quel telefono, sembrate due innamorati…”. Andarono insieme a Cadagues l’estate della maturità, sulla Costa Brava, in un sito esclusivo del  Mediterranée. Durante il viaggio si fermarono a Firenze e comprarono dell’erba (fasulla) al Ponte Vecchio.

“So’ fatto, come so’ fatto!…”

“Ma de che?, cazzone, è camomilla… ah, ah…”

Invece di rimorchiare come avrebbero tanto voluto, in quel sito del Mediterranee bevevano e fumavano canne la notte sul bordo della piscina. Una volta si spararono dell’oppio che gli aveva rimediato un cameriere. Chiacchieravano di ragazze, di esami, della paura del futuro, le solite cose di cui parlano i ragazzi di quell’età, appena usciti dal liceo. Talvolta entravano in macchina solo per ascoltare la musica. Stavano bene insieme: in realtà le ragazze, sempre evocate, sempre bramate, li avrebbero solo distolti dalla loro dolce e affettuosa amicizia. Oggi non lo vede quasi più Goffredo. D’estate bada al suo stabilimento, ereditato dal padre, che ha migliorato e ingrandito. D’inverno si fa vivo di rado. Eppure i primi anni di matrimonio si vedevano spesso, a coppie. Facevano weekend in Umbria o in Toscana: Giulia e Stefania erano diventate amiche.

Come arriva con quel sorriso a trentadue denti dagli incisivi sporgenti, e i capelli brizzolati svolazzanti per nascondere le orecchie a sventola, neppure gli chiede come va e gli sta già mostrando una propria foto di profilo sul display del cellulare. “Allora?, Giorgio? Allora Ciuffettino, come andiamo?…”. Giorgio si complimenta per il suo stato tonico e gagliardo (ha la palestra in casa, ovvero una parte della sua casa l’ha attrezzata a palestra con sauna, pesi, attrezzi e tutto), gli stringe forte il braccio perché sa che a lui fa molto piacere fargli apprezzare il tono muscolare. L’amico gli tocca – dopo che Giorgio ha indugiato con espressioni di ammirazione sulla sua “tartaruga” percepibile anche sotto la camicia –  la pancetta molle ma non commenta nulla, oggi ha qualcosa che gli urge in petto, e allora gli racconta tutto di getto, davanti a uno spiazzo verde circondato da una macchia di querceti e un muro pieno di scritte razziste assediato da rovi spinosi. Giorgio continua a guardarlo intanto: un gran bell’uomo, accidenti, ancora una ricca chioma riccioluta che incornicia il volto abbronzato, scolpito da rughe virili. Perdio, davvero un modo fico di invecchiare. Gli parla di sue faccende di corna e liti, insulti, scenate, pianti e poi avvocati… Arriveranno finalmente al divorzio, che lui le ha sempre negato nel corso degli anni? Lo ascolta, Giorgio, ma non riesce a partecipare emotivamente alle sue vicende. Lo sente ormai maledettamente lontano Goffredo, appartenente a un’altra epoca storica della sua vita. L’amico neppure gli chiede nulla di Dora, benché sappia la china che ha preso sua figlia. Una distanza incolmabile li separa. Quando si passa a rievocare gli anni passati, e lo stato di salute degli altri amici, si distrae smaccatamente intenerito da un bambino piccolo per mano alla madre, che invece Goffredo non degna di uno sguardo.

“Ma ci sta qualche problema?, Giorgio, qualche novità?”

“No, nessun problema, Goffredo, nessuna novità”.

Lo saluta, lo guarda tornare al suo Suv nero scintillante con gli interni di pelle chiari parcheggiato “alla romana”, cioè a cazzo di cane, ed è quasi una liberazione ripiombare – senza diversioni – nel suo quotidiano dolore.

Giorgio sta osservando bambini che giocano, mamme che chiacchierano, alcuni anziani seduti. Si siede in una panchina vuota. E subito un palloncino rosa lo colpisce in faccia e una bimba gli piomba addosso per riprendersi il suo gioco. Giorgio si scuote dai suoi pensieri, guarda la bimba, lei gli sorride. Un momento dopo arriva la mamma, che si scusa e porta via la figlia. Giorgio, accendendo una sigaretta, improvvisamente scoppia a piangere, e subito si copre il volto con le mani. Un’anziana signora gli passa vicino, lo guarda compassionevole.

“Scusi…” dice con voce gentile. “Ha bisogno di qualcosa?”

Giorgio si asciuga gli occhi, alza lo sguardo, senza rispondere.

“E’ libero?” chiede la signora dolcemente, indicando lo spazio a fianco di Giorgio.

“Sì… certo…” risponde Giorgio e mentre la donna si siede lui si alza e se ne va. Ci manca solo che mi sfogo con la vecchia, si fa indirizzandosi alla macchina parcheggiata, anche la sua, alla romana.

2. Continua. Clicca qui per leggere la prima puntata

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