Pier Mario Fasanotti
Indagine su quattro celebri suicidi

Discese agli Inferi

Salgari, Pavese, Levi e Lucentini. Demetrio Paolin traccia quattro ritratti corredati da notizie, ipotesi, analisi dei comportamenti e dei testi partendo dai luoghi dove gli scrittori si sono tolti la vita. In un libro intenso e carico di pietas

L’idea è molto originale, il libro è affascinante e profondo. Demetrio Paolin, piemontese, studioso di letteratura e pubblicista ha preso in considerazione i luoghi dove quattro scrittori – Cesare Pavese, Emilio Salgari, Primo Levi e Franco Lucentini – si sono tolti la vita. Quindi quattro ritratti corredati da notizie, ipotesi, analisi dei comportamenti e dei testi. Raccolti in un libro (Non fate troppi pettegolezzi, 114 pagine, 10 euro), edito dalla casa editrice barese LiberAria. Ciò rafforza la nostra personale convinzione che in questo periodo di non lettura e di conformismo letterario, occorre prestare un’attenzione particolare alla piccola editoria, indubbiamente innovativa e sensibile a proposte che non siano sempre le solite.

Paolin parte da Cuorghè, vicino Torino, dove c’è l’ultima dimora di Emilio Salgari. Incatenato alla sua scrivania di legno, il padre di Sandokan, scriveva a cottimo, consultava atlanti e testi di viaggio per infilare nelle sue avventure odori esotici, scorci di burrasche marine, piante tropicali. Nell’ultimo periodo della sua vita, fatto oggetto di strozzinaggio da parte dei suoi editori, Salgari (di origine veneta) entrava nelle grotte del suo personalissimo mondo. E così faceva sognare i lettori (e molto dopo anche i telespettatori, quando l’attore Kabir Bebi interpretò la “tigre della Malesia” così magistralmente da condizionare la fantasia dei lettori). Salgari doveva vedersela con i creditori assillanti, con le richieste di anticipi agli editori, con le esigenze dei figli e soprattutto con la malattia mentale di sua moglie. Scrive Paolin: «C’è una misura, una sobrietà, un’algida lontananza, un disinteresse per i fatti del mondo, una polvere leggera che si accumula sulla vita e che basta un soffio per far volare via». E ancora: «La casa di Salgari è la casa di un suicida, le case del borgo sono tristi e misere, anche questa che si affaccia su una via centrale di Cuorghè non sfugge a tale impressione: qui Salgari è morto poco alla volta, al tavolo di lavoro». Un giorno però si alzò da quella sedia, andò in un bosco e si sgozzò con furia maldestra.

copertina PaolinUna delle ipotesi avanzate da Paolin è che si fosse ormai immedesimato in un Sandokan coi capelli bianchi, i denti marci e cadenti, le mani tremanti. Sì, proprio quelle mani che avevano brandito spade e sciabole incutendo paura e rispetto in tutti, «nell’eterna lotta del bene contro il male». L’eroe di quei mari lontani, pur canaglia, aveva un forte nucleo di bontà. Il suo creatore inventa il tragico scatto d’orgoglio di Sandokan e lo fa proprio: «…credeva veramente nei suoi personaggi… li prendeva dannatamente sul serio, non sempre il suo stile glielo consentiva, ma ci provava». Il suicidio sarebbe stato quindi un omaggio alle sue creature di carta. Non ha bevuto il veleno come madame Bovary (versione moderna del suicidio di Cleopatra), ma ha «ha compiuto un sacrificio: c’è qualcosa di religioso e primitivo nel suo gesto». Oppure ha visto la sconfitta proprio nella scrittura, in una Torino che si apprestava a un altro tipo di immaginario: il cinema. Salgari si sentì fuori tempo, così come lo erano Sandokan e il fido Yanez. Si toglie la vita, in modo orrendamente teatrale, il 25 aprile 1911. Si taglia la gola. La lama contro se stesso, come avrebbe poi fatto il giapponese Mishima, con il suo seppuku da samurai (sventramento).

Prima scrive le sue ultime righe. Un’accusa pesantissima contro gli editori: «A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria, chiedo solo che per compenso dei guadagni che io vi ho dato pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna». Un gesto violento anche questo, annota Demetrio Paolin. «Spezzare – spiega – non è “abbandonare” e nemmeno “deporre”… Semmai spezzare ha un significato di liberazione da una schiavitù… da una forma di oppressione che lo teneva costretto al suo tavolo per ore e ore». Lo comprendiamo: libri pagati male, ritmi di lavoro pazzeschi, contratti truffaldini l’hanno reso «un disadattato della cultura». Chissà: se avesse subito meno pressioni avrebbe elevato il tono letterario delle sue avventure. Chissà. Magari poteva anche sfiorare le altezze di Charles Dickens, di Fëdor Dostoevskij e Honoré de Balzac, anche loro prolifici per l’agguato dei creditori.

Il titolo del libro di Paolin è la seconda parte dell’ultima frase scritta da Cesare Pavese, suicida il 27 agosto in un albergo di piazza Carlo Felice, sotto i portici, in faccia alla stazione Porta Nuova. La frase intera è questa: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi». L’uomo venuto dalle colline delle Langhe a Torino per cercare fortuna, è morto nella più desolante solitudine. Giustamente Paolin ricorda che nel 2000, a cinquant’anni dal suicidio di uno dei più grandi scrittori della sua generazione, «un attore fece una performance teatrale in quella stanza. Ho trovato l’idea vomitevole e pornografica». Anche per questo lui non entra a “curiosare”. Lo considera «un mio morto», cui va il tributo più delicato del rispetto. Per Pavese tutto era dolore. «Era dolore fare il bagno nudo nel fiume, era dolore il sesso, l’abbracciarsi». Il narratore nato a Santo Stefano Belbo non ha una struttura mentale filosofica, evita di ragionare sul proprio dolore, «semplicemente mostra questo dolore in ogni sua forma, lo rende purissimo e nitido ai nostri occhi, ce lo presenta senza compiacimenti e lo rende bello».

Sulla sua tomba volle questa scritta: «Ho dato poesia agli uomini». Certo, fu anche poeta in senso stretto, e come tale aspramente criticato dai vari Montale, Caproni, Ungaretti, persino Sereni. La sua “poesia”- che peraltro contiene versi stupendi – è il segnale che lo connota come «portatore all’uomo di qualcosa», rifacendosi a radici antichissime e mitologiche. Pavese non fa opera di scavo, evita l’oscurità e la gnosi. In questo si pone accanto a Orfeo, il primo cantore poeta, «colui che è sceso negli inferi grazie alla poesia». Spiega Paolin: «L’io lirico di Pavese si spezzetta e si sminuzza in diversi bozzetti di personaggi che si esprimono tramite un flusso di discorso indiretto libero, che indica quanto e come lui e il successivo neorealismo siano debitori al Verga de I Malavoglia». «Cesare ferma la poesia in un attimo, la blocca come un fossile». Mentre nella prosa è ricorrente il tema del viaggio, della camminata. Tutti i suoi personaggi, al contrario di lui, lasciano la città e optano per la campagna: «C’è l’impressione continua di una camminata, una camminata lungo il crinale di una vigna; una sorta di ascesa fino al punto in cui ci si ferma». C’è una fretta escatologica. Un’urgenza composta di un grande accumulo di desideri, con l’inevitabile retrogusto d’angoscia.

E le donne? No, non facciamo pettegolezzi anche se certe cose o le sappiamo o le intuiamo. Fatto sta che in Pavese albergava questa complessità di rapporti con il femminile. In un passo de Il mestiere di vivere, Cesare scrive: «Le donne, come i tedeschi, sono il nemico». Paolin, con arguzia colta, indica il nemico alla pari dei cavalli della Battaglia di San Romano di Paolo Uccello: «il nemico è chi mi viene contro. Con il nemico ci si scontra, ma nello stesso tempo ci si incontra». Non è un caso che in latino la parola “ospite” (hospes) e la parola “nemico” (hostis) siano «praticamente le medesime». Oppure: «la donna, nella pagina della Scrittura, non è un semplice aiuto, una compagna, ma è la prima esperienza di alterità. È nemico perché ti costringe a fare i conti con te stesso». La donna come l’invasore tedesco, per Pavese.

Per ragioni di spazio, non indaghiamo sulle due altre morti violente, quelle di Primo Levi e di Franco Lucentini. Molto probabile che la scelta di chi scrive questa nota dipenda dal fatto di aver conosciuto, e bene, sia l’uno che l’altro. E li ricorda con perturbamento. In ogni caso è pressante il consiglio ai lettori: leggete quei due capitoli.

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