Alessandro Boschi
Dopo la notte degli Oscar/1

Adesso, viva l’Itaglia

Ironizzare, un po' compiaciuti, sui nostri difetti: questo piace di noi all'estero. Anche la vittoria di Sorrentino a Hollywood ce lo dimostra

La cura con cui Paolo Sorrentino, dopo avere ricevuto l’Oscar per La grande bellezza, ha scelto chi ringraziare, Fellini, Scorsese, Talking Heads e Maradona, la dice lunga sul personaggio in questione, perché prenderne quattro su quattro non è da tutti. Nel senso che in questi quattro nomi oltre a esserci tutto l’universo sorrentiniano, cinematografico, musicale e soprattutto calcistico, c’è anche una capacita diplomatica non comune, che svaria dall’alto al basso, dall’Italia al resto del mondo passando attraverso le raffinate melodie di David Byrne e compagni già “sfruttati” nel precedente This must be the place. Non c’è dubbio che Sorrentino sia il nostro regista più dotato, non solo di talento ma anche di tecnica. È notorio che senza tecnica non può esserci arte, specialmente quando parliamo di un’arte più o meno legittima come il cinema. Che comunque è solo la settima, come ci fa notare il personaggio di Sergio Rubini nel film di Ettore Scola Che strano chiamarsi Federico – Scola racconta Fellini.

Prendendola meno alla lontana diciamo subito che il nostro giudizio sul film resta ovviamente, sprechiamo anche un avverbio, lo stesso. La grande bellezza è un ottimo film, ma non è il migliore di Sorrentino, è intriso di momenti scintillanti ma anche di pause e involuzioni, perfino di passaggi a vuoto. Ma così non la pensano, e aggiungiamo per fortuna, quelli dell’Academy. Perché è evidente quanto questo successo faccia bene a tutto il nostro cinema, spesso esangue, povero di idee, di talenti e criticato più da noi che oltre confine. Certo, se poi si legge il comunicato del Sindacato Giornalisti Cinematografici Italiani qualche brivido ci viene: «L’Oscar per La grande bellezza è un’iniezione di entusiasmo per tutto il cinema italiano, per i suoi talenti, l’industria, gli autori,i protagonisti, i tecnici. Per il pubblico, perché torni con entusiasmo in sala. E anche per la stampa, perché riprenda a sostenere in maniera più convinta quello che a volte dagli altri Paesi ci invidiano e che noi stessi non sappiamo riconoscere». Sulla prima parte nulla da dire. Quella che ci preoccupa è la parte finale. Molto alla «dateci un taglio a certe critiche». L’equazione è piuttosto semplice: i critici italiani, perché è quella la parte di stampa cui si fa riferimento, devono sostenere i prodotti italiani. Il passaggio successivo, non scritto ma robustamente suggerito, è: anche se i film non vi piacciono. Sono italiani e dobbiamo parlarne bene. Se scrivere questo significa fare un favore al film, allora il mondo è davvero alla rovescia. Il che non ci sentiremmo di escludere, in particolare per quello che ci riguarda rispetto agli altri Oscar assegnati.

12 anni schiavoPartiamo dal premio al Miglior film assegnato a 12 anni schiavo del bianco di colore Steve McQueen. Se c’era un film che non avrebbe dovuto vincere era proprio questo. Superficiale, compiaciuto, e lungi dall’essere un atto di denuncia dello schiavismo un benché minimo credibile. Ma evidentemente quando si parla di schiavitù agli americani vengono i sensi di colpa, specialmente se non ne parlano gli americani (il ben più consistente Amistad dell’americanissimo  Steven Spielberg ad esempio non fu nemmeno nominato). E chissà se un qualche senso di colpa sia venuto loro quando hanno dovuto assegnare il premio per l’attore protagonista. Matthew McConaughey per Dallas Buyers Club ha di certo meritato, ma perché non dare un premio che sarebbe stato anche alla carriera a Bruce Dern, magnifico protagonista dell’altrettanto magnifico e ignorantissimo Nebraska? E il povero Leo DiCaprio? Tra l’altro ancora non sappiamo spiegarci perché non glielo abbiano dato per la sua interpretazione del ragazzo ritardato in Buon compleanno Mr Grape. Gli handicap e in genere le menomazioni fisiche, o anche solo il trucco che imbruttisce, vanno molto in quel di Los Angeles. Vedi ad esempio la prova en travesti del sodale di Matthew McConaughey Jared Leto vincitore dell’Oscar come migliore attore non protagonista.

Attrice non protagonista migliore è invece risultata Lupita Nyong’o, sofferente vittima in 12 anni schiavo. Per la regia si è aggiudicato la statuetta il messicano Alfonso Cuaròn per Gravity, che ha battuto tra gli altri Martin Scorsese e si è portato a casa la bellezza (grande anche questa) di sette statuette. Per l’amordidio!, bravissimo Cuaròn (tra l’altro medaglia al valore per il direttore di Venezia Alberto Barbera che gli ha fatto inaugurare l’ultima edizione della Mostra), ma un occhio a The Wolf of Wall Street io ce l’avrei buttato. E invece niente, acqua fresca. Insomma, al netto di tutto ci sembra che le cose da rimarcare in questa 86a edizione degli Oscar sono essenzialmente due: il fatto che all’estero noi italiani siamo sempre apprezzati, a patto che ci mostriamo come gli altri da sempre si immaginano che noi siamo. E, poi, che nessuno deve faticarsi un Oscar alla regia come Martin Scorsese.  Alla prossima.

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