Domenico Calcaterra
Ritratto controcorrente del critico scomparso

La vocazione frustrata di Segre

Per lui la critica di stampo strutturalistico-semiologico era la «più combattiva e ricca di risultati». Ma la sua cifra è stata anche la sua condanna, impedendogli di praticare l'indispensabile verticalità tra il testo e la vita

Era da poche settimane giunta la definitiva consacrazione, con un Meridiano dal taglio antologico intitolato l’Opera critica, la cui selezione era stata curata dallo stesso Segre, con uno scritto introduttivo a chiarire come più che all’aspetto specialistico avesse preferito dare spazio alla sua speculazione critico-teorica, a volerne riassumere in tal modo la fitta parabola. Mostrandosi per quello che, in effetti, è sempre stato: un teorico (più o meno) illuminato.

Muovendo i primi passi nell’alveo della critica stilistica (sulla scia di Benvenuto Terracini), le sue indagini si sono sempre più orientate nell’angolo di campo compreso «fra strutturalismo e semiologia», come recitava il sottotitolo di un suo celebre libro I segni e la critica (1969). Fu lui, infatti, a dirigere la più accreditata officina dello strutturalismo italiano, la rivista “Strumenti critici” fondata nel 1966 (insieme ad Avalle, Corti, Isella), con l’importante correttivo (rispetto alla lezione che giungeva d’oltralpe) di non perdere di vista il legame con la storia e la tradizione.

Il primo incontro con le pagine segriane risale ai miei primi studi su Consolo, con quella nozione di «plurivocità» messa in campo dal critico in Intreccio di voci (1991), per chiarire la radice del plurilinguismo dello scrittore siciliano, utile a differenziarlo dall’esperienza letteraria di altre penne pur barocche come Gadda, Pizzuto, D’Arrigo o Bufalino. Nozione che, sia detto di passaggio, se aiutava a comprendere e definire l’identikit di un autore singolarissimo come Consolo, e nello stesso tempo di una linea portante all’interno del canone letterario nazionale, forse in qualche modo incoraggiava (e non poco) a eclissare la vicenda di quegli scrittori che avevano, al contrario, optato per soluzioni di poetica meno ardue e sperimentali, più distese, sul piano stilistico e testuale. Predilezione del momento “polifonico” nella letteratura del Novecento, che di fatto rendeva Cesare Segre portatore sano di un pregiudizio prospettico.

Un onesto disamore verso questo ingombrante monumento (già in vita) della critica italiana, lo maturai definitivamente andando a recuperare un testo che aveva parecchio fatto discutere come Notizie dalla crisi (1993), nel quale, provandosi a cartografare la mappa della crisi, mostrando non poca nonchalance, promuoveva la critica di stampo strutturalistico-semiologico come la «più combattiva e ricca di risultati tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta», sorvolando (semplicemente mettendola tra parentesi) sull’altra metà del cielo rappresentata dalla cosiddetta critica militante; volontario omissis che taceva sull’esperienza di saggisti e critici-scrittori come Garboli, Siciliano, Baldacci, Mengaldo, Lavagetto, Berardinelli, solo per citare i primi che mi vengono in mente. Nel riferire di una crisi anomala, illustrando pregi e pericoli dei nuovi orientamenti che facevano capolino in quegli anni, Segre (ancora rivendicando le ragioni del testo letterario) si preoccupava, di tali tendenze, a misurare lo scarto da una norma che non poteva che essere quella consolidata attraverso gli studi suoi e dei sodali di strada; in verità con qualche apertura o revisione, per una critica che fosse infine tesa a descrivere, storicizzare e valutare l’opera letteraria (come scriverà dopo in Ritorno alla critica, 2001). L’avvertimento suonava inequivocabile: fuorilegge era ogni esperimento che riducesse il testo a mero pretesto, trampolino per ben altri pindarici voli; quel proliferare incontrollato di metadiscorsi che, per il nostro, coincidevano con la negazione stessa dell’attività critica. Fuorilegge era, insomma, ogni tentativo che non riconoscesse nella volontà di capire – su quella soglia tra certezza e incertezza che ogni opera spalanca -, il solo assioma della deontologia del critico.

Ma c’è, nelle pagine introduttive di Notizie dalla crisi, un passo che, a leggerlo adesso, sembra riuscire straordinariamente funzionale a svelarci, forse, la cifra di un intero destino intellettuale. A un certo punto Segre, mentre indugia nello spiegare il senso di questa divisa deontologica, scrive: «impegnarsi a comprendere significa combattere per la vita (del testo), contro la morte (del testo)». Le ragioni della vita da affermare contro ogni pericolo di estinzione – ecco il nodo cruciale -, non riuscirono mai a sollevarsi, nella critica di Cesare Segre, oltre l’orizzonte bidimensionale rappresentato dal testo. Fu lo spaventapasseri del testo lo scudo da brandire; fu questa mancanza di verticalità tra il libro e la vita, tra la vita (vera) e il libro che lo inchiodò, con malcelato e crescente disagio, al suo monumento (al liberarsi dal quale poco giovò un crescente desiderio di sbottonarsi sempre un po’ di più l’inamidato e professorale camice). Nell’approccio ai testi, a tradirlo fu il cilicio del rigore indossato per tutta la vita (e con accresciuta fatica, negli ultimi anni), castrando in lui, nell’accostarsi a essi, ogni impeto dilettantesco. Credo si possa dire che Cesare Segre sia stato, paradossalmente, nell’accettazione di ciò che con Lukács si potrebbe leggere come «la propria mancanza di destino», il più grande critico della vita (mancato) del secondo Novecento italiano.

Facebooktwitterlinkedin