Paolo Bonari
Riletture a posteriori

Romanzo degli errori

Qual è il senso del «caso Stoner», il romanzo di John Williams che ha dato fortuna postuma all'autore? Il ritratto delle passioni in conflitto costante

A volte, il successo ti arride, arriva, quando non serve più, e così è stato per John Williams, classe 1922, e scomparso nel 1994, quando il caso editoriale che ha riguardato un suo romanzo, Stoner, era ancora lontano dal verificarsi. Pubblicato nel 1965 e passato sotto silenzio, infatti, è stata necessaria la ristampa del 2003, promossa dalla New York Review of Books, affinché il suo libro divenisse un fenomeno letterario, l’oggetto di un passaparola incessante che è stato quantificato nelle decine di migliaia di copie vendute: negli Stati Uniti, prima, così come in Europa, poi, e da noi, infine, grazie a Fazi Editore, che ha pensato bene di tradurlo, due anni fa (confronta la recensione di Ilaria Palomba su Succedeoggi).

Passati e remoti, i tempi verbali che la narrano, come passata e remota è la vita di Stoner, insegnante bravo, ma non memorabile – un cognome da pronunciare senza enfasi, proprio come quello del suo creatore – marito stoicamente infelice di una moglie assente e nemica, che non smise mai di muovergli guerra, nei lunghi anni del matrimonio, vittima anch’essa di pregresse disperazioni familiari, e la cui intera esistenza sembra essere uno sfogo, nonché uno spreco dedicato e rinfacciato (in absentia) a chi le ha voluto male, fatto pagare (in presentia) a chi le vuole bene, o fa di tutto per volerglielo. Certe volte, tali unioni non estendono la loro condanna ai generati, che si sottraggono alle spire fatali, ma la fortuna e la forza non sono gli attributi di Grace, la loro figlia, che sperpera il proprio corpo e tutta l’anima, forse, inseguendo riscatti che esigono interessi sconosciuti.

Quasi illecito, lasciare che fiorisca una storia delle passioni, da questa carta, dall’interno di vissuti del genere, perché le poche carezze che queste figure si scambiano sono fredde: non raffreddate, però – mai scaturite, piuttosto. Eccezione che vorrebbe non confermare l’inderogabile, lo sdraiarsi accanto degli amanti, di Stoner e della sua femmina segreta, pallida e sottile, l’amore che complica l’abitudine, ed è la loro possibilità celeste, anche, allusa e frustrata, infine, dalla legalità necessaria ai meccanismi mondani, affinché si riproducano e neghino altre felicità. Stoner tradisce il corpo spigoloso di Edith, sua moglie, e non si può non tifare per lui. Ma la «solita veste color blu scuro» di Katherine non è celeste, e lo spiraglio si richiude: allontanato l’amore, non resta che prepararsi a morire. Forse, questo è un romanzo al quale il tempo si adatta, o tutti i tempi vanno bene, perché abbiamo bisogno di queste reciprocità da ecosistema incorrotto: leggiamo, immaginiamo quest’uomo dimesso, e speriamo di poter essere più forti di lui, rinfrancati. Nessuna esistenza è anonima, purtroppo, e dovremo rendere conto a noi stessi, un giorno: tutti questi anni serviranno a limare la durezza del giudice che ci abita, non ad altro.

Come una lunga serie di istantanee che acquistano movimento grazie alle energie primarie, il dolore (legittimo) e l’amore (illegittimo), perché l’immobilità prevarrebbe, altrimenti: le scene del romanzo scappano, e non scorrono, anelando all’unico punto di luce che sa riabilitare tutte le vicende precedenti. Questi sono paradossi ottici, perché ci avevano convinto che fosse oscura, la morte. Avevano ragione, ma riguardo al futuro, al futuro che la segue, che non può illuminarsi, non al passato, al passato che la precede: questo è tutto da ammirare, da quell’altura. La scomparsa retroagisce, agisce alle spalle del morente ed emette il verdetto: ecco una morte che è degna di essere vissuta. Abbiamo partecipato all’invenzione di un suo altro impiego, di una nostra vittoria provvisoria: morte funzione della vita.

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