Valentina Mezzacappa
Verso i 450 anni...

I depressi di Will

Shakespeare ha raccontato uomini in preda a un male insidioso che costringe all’invisibilità, all’immobilità psicologica e fisica. Ecco la sua modernità. Parola di Richard Dreyfuss

Qualche giorno fa abbiamo avuto un’incredibile opportunità, quella di incontrare personalmente il premio Oscar Richard Dreyfuss, giunto a Roma per promuovere un’operazione nella quale si intrecciano eccellenza gastronomica italiana e la settima arte. Abbiamo chiesto all’attore di firmarci quella copia di Rosencrantz e Guilderstern sono morti che dal 1994 non ha mai smesso di annoiarci durante le ripetute letture di cui oramai abbiamo perso il conto. Ed è stato così che siamo riusciti a parlare con Dreyfuss dell’opus del bardo, a scambiare qualche idea e intuizione sull’Amleto e scoprire che al capocomico di Stoppard piacerebbe tanto organizzare un laboratorio radiofonico incentrato sulla tragedia di Elsinore.

richard dreyfusLa nostra conversazione ha toccato anche gli aspetti politici della tragedia per poi spostarsi sul tema della modernità che per l’attore trova la sua sintesi in una battuta del protagonista: «Tutt’è tenersi pronti. Poiché nessuno sa quello che lascia, che può importare lasciarlo anzitempo?». Modernità, dunque è stata la parola chiave del nostro scambio. La stessa che ci eravamo dati come risposta quando qualche giorno prima dell’incontro, con il 450° anniversario della nascita di Shakespeare alle porte ci siamo interrogati sulle ragioni della sua immortalità. Basti solo pensare a tutti gli studi e ai dibattiti che i suoi scritti e persino la sua stessa identità suscitano ancora oggi a distanza di ben quattro secoli, e tutto questo senza contare gli adattamenti teatrali, televisivi, cinematografici, radiofonici…

Il nostro percorso sulla modernità inizia da una battuta pronunciata da Amleto che personalmente abbiamo sempre trovato più interessante del famoso monologo con il quale la tragedia viene oramai pavlovianamente associata. Atto II, scena II, Amleto ha appena ricevuto Rosencrantz e Guilderstern e sta spiegando loro il suo stato d’animo: «…È un po’ di tempo che, /non so perché, /ho perso tutto il mio brioso umore, /tralasciato ogni usata occupazione; /e ciò grava a tal punto sul mio spirito /che questa bella struttura, la terra, /mi sembra un promontorio senza vita, /questo stupendo baldacchino, il cielo, /questa splendida volta, il firmamento, /questo tetto maestoso, /ingemmato di fuochi d’oro… ebbene, /per me non è nient’altro che un odiato /pestilenziale ammasso di vapori. /Che sublime capolavoro è l’uomo! /Quanto nobile nella sua ragione! /Quanto infinito nelle sue risorse! /Quanto espressivo nelle sue movenze, /mirabile: un angelo negli atti, /un dio nell’intelletto! /La bellezza dell’universo mondo! /La perfezione del regno animale! /Eppure che cos’è agli occhi miei /questo conglomerato di terriccio?».

Se si accantona per un attimo l’osticità della metrica e i riferimenti ad un immaginario elisabettiano che poco ha in comune con quello presente, ecco affiorare una straordinaria e toccante rivelazione. Shakespeare ci regala un momento di amara e puntuale introspezione, la confessione di un uomo preda di un male insidioso che costringe all’invisibilità, all’immobilità psicologica e fisica. Il male di cui si parla è la depressione e siamo tra il 1600 e il 1602 quando Shakespeare scrive queste battute. Sono dati sconcertanti soprattutto se si considera il fatto che nel nostro paese si fa ancora fatica a riconoscere la depressione come una vera e propria malattia alla stregua del diabete o dell’epilessia.

È dunque questa la modernità che caratterizza l’opera del drammaturgo inglese e sulla quale desideriamo soffermarci per un attimo. Vale a dire la sua capacità introspettiva, il suo splendido e disarmante senso dell’orientamento in quella insidiosa foresta che è il complesso delle funzioni psicologiche umane. Shakespeare ha descritto come abbiamo già detto la depressione, ha saputo cogliere le lotte interiori, le spinte e le esitazioni frutto di tendenze suicide. E poi ha sollevato il velo sulla gelosia, l’insicurezza, la manipolazione, il rimorso e la sua rielaborazione onirica, ha messo in scena la masochistica debolezza di cuori infranti, la fragilità inaspettata di genitori e la rabbia di figli rinnegati.

Shakespeare ha fatto tutto questo e molto altro in un periodo culturalmente, filosoficamente e religiosamente ancora non pronto né capace di concepire un lavoro di introspezione. Lavoro per il quale la civiltà dovrà aspettare ancora oltre due secoli per la sua formalizzazione.

Ecco, forse sta proprio in questo, la capacità delle sue opere di suscitare ancora un così profondo interesse a distanza di secoli. Perché, per dirla parafransando le parole del bardo, egli ci mette «avanti gli occhi uno specchio nel quale rimirare la parte più segreta di noi stessi».

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