Paolo Bonari
Ricordo di un grande italiano

Encomio garboliano

Sta per arrivare il decennale della morte di Cesare Garboli (11 aprile) un motivo in più per tornare a riflettere su un genio scomodo. Troppo in fretta dimenticato

Dalla materia al suo sublime, e fare ritorno, poi, per ricevere la gratificazione che, sole, altre mani possono restituirci: sedersi accanto ai poeti – d’immagini, di versi o di capoversi -, per Cesare Garboli, era una necessità creatrice. Non riusciva, il viareggino, a tenersi a distanza, a mantenere quella severità d’intenti che, secondo alcuni, è il segno originale e distintivo della cosiddetta critica militante: se un senso di militanza, infatti, era da conservare, Garboli favorì quello più prossimo all’amicizia, al farsi compagnia di uomini singolari che, approfittando di un cedimento del loro destino solitario, cioè dei miracoli, si trovino ad andare d’accordo. Allora, essendo quella poetica una sfida impari, lanciata contro le leggi del mimetismo universale, è bene combatterla in due, almeno in due, fintantoché i convitati non si mettano a bisticciare: circuiva e corteggiava, in ragione di ciò, chi condividesse con lui la volontà dell’intelligenza, nonché il rischio che si corre, quando ci si faccia prossimi al mistero dell’arte: il suo movente.

A quella sfida, in ogni caso, Garboli volle partecipare, affiancando Vittorio Sereni, tanto per citare il sodale di cui non trascurò di rivelare gli incontri, gli episodi, le chiacchierate e l’occasione in cui il poeta seppe approfittare della sua ospitalità. Così numerosi, gli amici di Garboli, che basta gettare un occhio agli indici dei suoi libri: ogni capitolo prevederà l’incursione nel minuscolo, la cronaca quotidiana degli eventi che permetteranno, infine, al critico felino di scovare il punto debole della preda – la pietra d’angolo dell’incantesimo poetico – e di effettuare il balzo, come a volerlo addentare. Ma c’è chi ha delle conoscenze, lassù, cosicché le sue vittime saranno rigorosamente risparmiate, perdonate e, infine, consolate, nel momento in cui il cacciatore scopre di condividere, con loro, la lingua e l’ansia di non riuscire a sfruttarla, e si scioglie la sua smorfia di durezza: c’è da commemorare il lieto evento, altroché.

Per vie critiche, procedere verso l’oggetto della ricerca è l’abitudine, seguendo metodi che siano adeguatamente riproducibili, ma Garboli no, non riprodusse, e non si vede chi potrebbe tracciare i passi del suo vagabondare: da Giacomo Debenedetti, forse, apprese che l’arte sa essere una maschera profonda, e che è possibile risalire alla superficie, poi, al soggetto finalmente nudo, e liberato. Altro impegno richiederebbe tratteggiare la stima reciproca che lo legò agli “olivettiani” Geno Pampaloni e Franco Fortini: il primo ne ammirava l’audacia della fantasia critica, pur riconoscendo certi suoi eccessi istrionici, e, nel 1990, recensendo Falbalas. Immagini del Novecento – il suo capolavoro? –, tentava di andare oltre un formulario al quale già si era in abbondanza attinto, quello che lo voleva «scrittore prestato alla critica»; del secondo, si rammenta l’immediato incipit garboliano («Se c’è un luogo dove non vorrei entrare neppure per tutto l’oro del mondo, questo è la mente di Franco Fortini»). Ma si preferisce non riportarlo per intero: «Non perché sia una mente impervia. Tutt’altro. È una mente bellissima. La si direbbe la mente di un Sagittario, onesta, rivolta verso l’alto».

Se ci fu chi gli insegnò l’inutilità degli insegnamenti, quello è Roberto Longhi, la cui figura di esteta renitente a qualsivoglia ripetizione fu, per lui, modello contemporaneo di una vita d’arte, cioè di quell’opera in fieri che è, o dovrebbe essere, la nostra non imitabile andatura, su questa terra. Mario Soldati, amico inconciliabile, dal quale avrebbero potuto o dovuto separarlo l’irruenza e l’estroversione degli spettacoli quotidiani che il narratore torinese inscenava, per conquistarsi le simpatie di cui aveva intenso bisogno, si presentò a lui nel 1962, quando furono ospiti comuni, assieme a Giorgio Bassani, di Gian Giacomo Feltrinelli. La loro fu «un’amicizia spensierata, giuliva, e come domenicale, che, in fondo, non aveva molte ragioni di esistere né di manifestarsi. Ma essa si sviluppò, di lì in poi, sempre più stretta e tenace, così tenace che oggi, passato poco meno di un quarto di secolo, non so più separarla dalla mia vita»: così, ricordava Garboli nel 1985.

Eseguì le movenze del danzatore rituale, attorno al fuoco indicibile generato dagli artisti che si lasciarono visitare, e come se quella fiamma non fosse lecito fissarla: di metafora in metafora, lasciando che l’oggetto venisse meno, assecondandone l’oblìo, legittimando il pericolo della sua sparizione, qualora qualcuno tentasse di accostarlo. Meglio far esistere gli amici, improvvisarsi medium e mistagogo segreto, condurli a frequentare le sue stesse ragioni e regioni: riandare alla volta in cui Goffredo Parise lo convocò, con perentorietà, per fargli dono di un paio di pregiatissime scarpe, e ricostruirne il perché, o ritessere l’elegia dell’umanità di Natalia Ginzburg. «I libri nascono dalle persone, e l’esercizio della creatività letteraria, tra due persone fra le quali si è creato un rapporto di famigliarità e di amicizia, può essere uno strumento d’intelligenza reciproca, o un interesse in comune, ma solo uno dei tanti. L’espressione letteraria di una persona che ci è famigliare è solo uno degli aspetti in cui riconosciamo la sua espressione nel mondo. I libri non sono feticci, non bisogna adorarli»: avrebbe voluto richiamare, invitare al suo fianco, allora, anche quegli amici classici mai incontrati, Shakespeare, Molière – il suo Tartuffe individuava ed esauriva il carattere nazionale nostro, più che quello francese –, Leopardi e Pascoli.

«Non posso fare a meno di pensare a una critica che non cerchi di giudicare, ma di far esistere un’opera, un libro, una frase, un’idea»: scrivere di Garboli invita alla spregiudicatezza, ad avvicinargli parole non sue, perciò, ma di Michel Foucault, che delineano l’atteggiamento di una critica che non si astiene dal giudizio per eccesso buonista o per volontà adulatorie: che agisce, invece, ed entra in gioco unicamente dopo una preliminare selezione dei pochissimi, dei compagni che, nell’atto artistico, sembrano invocare l’intervento di qualcuno che ne sappia più di loro, e l’aiutante altri non poteva essere che Garboli, immancabilmente. «Riprodurrebbe, invece che dei giudizi, dei segni di vita; li chiamerebbe, li strapperebbe dal loro sonno. Talvolta li inventerebbe? Tanto meglio, tanto meglio. La critica sentenziosa mi fa addormentare; vorrei una critica fatta di scintille di immaginazione. Non sarebbe sovrana, né vestita di rosso. Porterebbe con sé i lampi di possibili tempeste»: seguitava, Foucault, ma è il demiurgo viareggino che sembra intravedersi, quasi sorridente.

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