Paolo Bonari
Alla riscoperta di un grande

Sillabando Parise

Sono passati trent'anni dai “Sillabari“. Fu una piccola grande rivoluzione tra poesia e narrativa: un azzardo subito cancellato dalla routine editoriale. Un motivo in più per tornare a parlarne

Nel 1984, il primo si unì al secondo e furono i Sillabari, finalmente: l’opera di Parise accedeva alla discussione critica, perché il suo era un libro vero e proprio, e quelle prose difficilmente etichettabili che era stato possibile apprezzare, sulle pagine del Corriere della Sera, erano letteratura, nonostante la via per raggiungere quell’altitudine, per guadagnarsi quella dignità, fosse stata sghemba. È sul quotidiano milanese, infatti, che erano state pubblicate, lungo tutto il decennio precedente, dal 1971 al 1980. Chi si accorse di ciò che stava succedendo fu Natalia Ginzburg, per esempio. Poi, pochi altri.

Ma qual era il progetto singolare che Parise aveva in mente e del quale oggi si festeggia il trentennale? Racconti o, meglio, “poesie in prosa”: definizione tentata dallo stesso autore. Un’insopportabile presunzione? E la poesia, ancora: un’ossessione, ovvero l’unico suo interesse residuo. Sembrava che non potesse farne a meno: preoccupato dalla sua scomparsa, nell’Italia cupa e verbosa dei Settanta, prigioniera degli automatismi che la neutralizzano, la poesia, e che rendono ogni parola non più vitale, non più necessaria, compone i Sillabari, controcanto sentimentale al decennio delle ideologie del risentimento. Se la società italiana non aveva più orecchio per la poesia ed era incapace di riconoscerla, ecco la fiera rappresaglia solitaria: Parise scelse di non prestare più attenzione al rumore sociale. Noto e tramandato l’aneddoto che costituì la scaturigine improvvisa: «L’erba è verde», affermò un bimbo, riempiendo il proprio sillabario, dando forma a una frase incontrovertibile e leale che preclude ogni dialogo e mette a tacere gli smaliziati, così come chi aspira a diventarlo. Non serviva altro: era stata scoperta, così, l’unità minima intatta e disponibile alla meraviglia che, perciò, non si prefigge l’alto compito “culturale” di sconcertare altre vite, non allestisce la messinscena dello “stile” – è vita bastante a se stessa.

Non è stato compiutamente scandagliato, il mistero dei Sillabari, perché non è e non sarà possibile farlo, probabilmente: libri cari a Parise erano quelli inafferrabili che riuscivano a scansare le interpretazioni, proiettando il terrore dell’inadeguatezza sulla critica che provava ad avvicinarli, e che, di nuovo, bastavano a se stessi. Se egli si fosse fermato a prestare ascolto ai teoremi prodotti dai membri di quella classe professionale, inoltre, i Sillabari non avrebbero visto la luce, o da quella non sarebbero stati investiti: dalla luce dei mattini sui quali aprono gli occhi, riammesse alla coscienza quotidiana, quelle istantanee creature umane o, similmente, da quella crepuscolare che permette alla loro vita che si svolge di essere inimitabile e maestosa, nella minuzia delle sue quiete manifestazioni.

italo calvinoAltre erano le battaglie stilistiche che si andavano combattendo, in quegli anni, e di portata più vasta, stando alle dichiarazioni dei loro promotori. Nella stessa leggerezza calviniana, la cui formulazione si situa a ridosso della comparsa dei Sillabari, un di più ideologico di de-realizzazione dell’esistente affiancava la volontà esplicita di una narrabilità sciolta e felice, un di più che sembra svanire, in Parise. A rimpiazzarlo, la celeste irrilevanza dei suoi “versi narrativi”, che mantengono intatte, però, l’umidità e la preferenza terrestre di Giovanni Comisso, suo educatore naturale: versi da recitare spediti, nell’attesa che si assestino, che si depositino, immediatamente antichi, sulla terra antica. Affrontarli con un respiro preso all’inizio del capoverso e sperando che esso possa reggere, durare fino in fondo, al prossimo spazio, estinguersi allo spalancarsi del bianco, sarebbe bene: atleticamente, un’operazione urgente da compiere come se non ci fosse più il tempo, che sta finendo o, comunque, non conta più, e come se il compositore sapesse, attraverso chissà quale passaparola di eletti, che era lui, innanzitutto, a non poterne più disporre. Morirà prima dei suoi cinquantasette anni, Parise, nell’età di quelli che non sono amici né nemici degli dèi: loro conoscenti.

Sillabando i nomi dei sentimenti umani elementari e sconosciuti, secondo Cesare Garboli, egli fece sì che il suo “stile narrativo” fosse quello del «possesso signorile di una realtà che siamo sul punto di lasciare per sempre». Parise avrebbe trovato da ridire, forse, alle parole del critico, in quanto d’arte, e non di stile, erano le sue mire: perché «per fare dello stile si può anche essere insinceri, anzi si deve essere insinceri, ma non per tentare di fare dell’arte. L’arte è più difficile dello stile». Quale la sincerità massima, allora? Quale il terreno dove darne prova? «L’arte più pura e perfetta che esista sulla terra è quella living, cioè della vita, dell’apparizione fisica in un determinato momento e mai più»: apparsi trent’anni fa, i Sillabari, e scomparsi trent’anni fa, inaugurarono la nostra lenta stagione della nostalgia.

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