Pier Mario Fasanotti
“La mutazione” di Sebastiano Nata

La riscossa del Sé

È la storia del crollo emotivo di Giovanni Breni quella raccontata dall'autore di “Il valore dei giorni” nel nuovo romanzo. Il resoconto doloroso della presa di coscienza di un grande manager che alla ricerca di un nuovo umanesimo si ribella alle regole del capitalismo

Senza dubbio è più il cinema che la letteratura a occuparsi del tema del lavoro. Soprattutto in Italia, dove gli scrittori preferiscono cimentarsi su problematiche dell’anima, della coppia o di altro. A loro parziale discolpa c’è il fatto che, a differenza dei loro colleghi americani, in genere non hanno esperienze molteplici e dirette dell’homo faber. Scrivono nel chiuso delle loro stanze, ignorano la catena di montaggio, l’universo dei piccoli impiegati, le dinamiche aziendali (a qualsiasi livello). Gli ultimi buoni romanzi sul lavoro sono quelli dei tempi di Paolo Volponi e della cerchia di intellettuali che si radunavano attorno ai sogni, considerati utopici, di Adriano Olivetti. Oggi, semmai, irrompe (vedasi gli scritti di Aldo Nove e pochi altri) il disagio della precarietà. Ed è quindi da considerare una (bellissima) eccezione l’opera di Sebastiano Nata, che oltretutto ha un vissuto internazionale. Purtroppo il grande pubblico non l’ha bene in mente, anche se vanta un’esperienza letteraria di tutto rispetto e di alta qualità.

Nata 2Nell’appena uscito racconto La mutazione, edito da Barney Edizioni (99 pagine, 13,50 euro), Nata fa un resoconto doloroso e acuto di un grande manager, Giovanni Breni, che si muove tra Roma, l’America e altri paesi. È la storia del suo crollo emotivo quando si rende conto che attorno a lui ruota un mondo di finzioni, di odiose caricature, di spietate strategie che non mettono in alcun conto l’individuo, considerato sempre un ingranaggio, un fantoccio tra fantocci, alla fine “un burattino” ben pagato che a metà circa della sua esistenza confessa il suo fallimento umano: «Sono uno degli individui di cui ho pensato male tutta la vita». La psiche si ribella alla messinscena aziendale, dove hanno spazio i servi, i cani ringhiosi, gli obbedienti a leader che esigono una fedeltà di stampo quasi religioso, dei guru ridicoli che dettano anche le più dettagliate regole di comportamento.

Il Breni del romanzo di Nata, pur acculturato e dotato di ottime letture, si rinchiude, spaesatissimo, in un lussuoso albergo di Miami. Ed è qui che avviene, appunto, la mutazione. Mette in fila ricordi, esperienze, facce, caratteri, ambienti. Compresa la sua ingenerata attenzione al particolare: per esempio l’ossessione le scarpe di costosissima marca italiana che avrebbe dovuto risultare strategica nel rapporto con i superiori. In una straziante solitudine, smania e vomita veleno: contro la multinazionale per cui lavora (tantissimo), contro il conformismo schiacciante e divorante. E contro se stesso: «Sono anni che non azzardo un gesto di ribellione, che accetto un pensiero unico, che non concepisco un’idea eretica». Riflette sulla ferocia del capitalismo finanziario, per il quale, per esempio, licenziare è solo “un danno collaterale”. Riflette su uomini e donne che procedono svuotati del proprio sé. È sull’orlo del crollo: «Oddio non ce la faccio. Ho il batticuore. Sarò scoperto, punito, giustiziato».

Evitiamo pure citazioni e confronti kafkiani, certo è che l’apparentemente privilegiato dottor Breni si sente nel mezzo di un processo che lo sta sbranando. È vissuto, e vive, in un ingranaggio che mette in agenda anche un ridicolo supporto psicologico, in realtà una delirante stampella che gli urla addosso la possibilità di diventare “un monarca”. Fino all’ultimo crede di poter accedere alla carica di “capo dell’Europa”, poi si accorge d’essere già stato emarginato, sbattuto nell’ombra più svilente dei perdenti ai quali non viene data mai una spiegazione autentica, ma solo vaghi e ipocriti segnali. Segnali da meschino palcoscenico dove recita la presunzione più ridicola e più grossolana. Il manager di Sebastiano Nata, nell’insonnia agitata e disordinata dell’hotel di Miami, continua ossessivamente a pensare alla gerarchia aziendale e alle sue maschere. Ma si avvicina rapidamente al denudamento di se stesso quando l’allineamento dei fatti, pratici ed emotivi, lo spingono finalmente a inforcare gli occhiali della verità: «Io non sono libero, non difendo nessuno. Sono feroce e al guinzaglio del padrone. Un cane da guardia. Un pitbull. Che a volte s’illude, questa è la depravazione, di essere un’anima gentile, di somigliare ai buoni». La folle vischiosità aziendale, fatta di subdoli travestimenti, s’infila persino nei suoi rapporti spirituali, oltreché coniugali. I tormenti interiori rischiano, agli occhi dei leader aziendali, d’essere visti come “patetici”. Giovanni Breni porta sempre con sé il Vangelo. Quasi ogni giorno legge qualche pagina. Salvo accorgersi, alla fine, che «una preghiera vera, che è anche ascolto, non c’è mai stata nell’intero arco della mia esistenza… mai un’ora di preghiera… parlo sempre io».

Senza svelare il finale del romanzo, occorre accennare al disperato bisogno di naturalezza esistenziale e di umanesimo. Bisogno che si fa sempre più urgente fino al punto di rottura definitivo, quando il manager recupera – allegoricamente ma fino a un certo punto – il suo diritto d’essere se stesso. Semplicemente un uomo e non uno sciagurato burattino. Ed ecco l’urlo di selvaggia umanità. Un grido belluino. Salvifico.

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