Valentina Mezzacappa
Un giallo in musica

Velvet, che noia!

... non la band di Lou Reed, ma l'inchiesta sul sesso estremo dalla quale il gruppo prese il nome: "The Velvet Underground" di Michael Leigh. Ma davvero fu quella l'ispirazione?

È innegabile. Come quel celebre biscottino che tanto ha segnato la storia della letteratura, la musica ha il potere di farci viaggiare attraverso il tempo, di riesumare antiche memorie, atmosfere, odori, amori, vittorie e disfatte. Eravamo a casa di un amico quando, mesi fa, è venuto a mancare il mitico Lou Reed, frontman dell’altrettanto mitica band The Velvet Underground. La sensazione è stata immediata quanto istintiva: con lui non se ne andava solo un grande artista e un rivoluzionario dei costumi sociali del XX° secolo ma anche una piccola porzione della nostra vita, come probabilmente anche quella di molti altri. Questo perché la musica è molto di più di ciò che ci dà a vedere in superficie. Persone lontanissime da noi e dal nostro quotidiano finiscono col diventarne parte fondamentale e integrante, tanto da regalarci a loro insaputa una colonna sonora della nostra vita.

A detta della Storia, il nome della celebre band di Lou Reed deriva da una pubblicazione che a causa del suo tema scosse il perbenismo e l’eterno puritanesimo degli Stati Uniti. Si tratta di The Velvet Underground, un’inchiesta giornalistica di appena 160 pagine firmata da Michael Leigh, il quale si avventura nel sottobosco del desiderio e della perversione sessuale borghese degli Stati Uniti degli anni sessanta. Nonostante l’argomento (insegna un celebre boemo che la maggior parte della gente scambia per austriaco che la sessualità è mezzo assai prezioso per giungere alla conoscenza profonda di un individuo) si fa enorme fatica ad arrivare alla centossessantesima pagina. È ciò che all’interno si trova di più scandaloso non sono le abitudini erotiche dei casi presi in esame ma l’approccio del giornalista, un approccio datato e ancorato a vecchie convinzioni.

Mike Leigh spesso e volentieri censura le informazioni che raccoglie perché a suo dire troppo estreme nei contenuti e sceglie di soffermarsi con una dovizia di particolari sul complicato sistema attraverso il quale scambisti, sadici e masochisti, omossessuali, amanti del bondage e molti altri entrano in contatto gli uni con gli altri anche se risiedenti in località lontane tra loro. Ecco che l’inchiesta di quella che viene venduta come una leggendaria pubblicazione sulla sessuologia abbandona quello che dovrebbe essere il suo effettivo tema per diventare un’esaustiva (forse sin troppo) guida all’intrallazzo per corrispondenza. Leigh ci racconta come i cosiddetti pervertiti dell’America del suo tempo entrano in comunicazione ma quando si tratta di andare a scavare in ciò che essi effettivamente fanno ritrae la mano dopo aver lanciato la pietra, firmando così una noiosa e ripetitiva inchiesta su cataloghi specializzati (dei cui contenuti ci dice molto poco), inserzioni dal doppio significato, e scambi di foto che a malapena vengono descritte. Insomma, arrivati alla fine di The Velvet Underground il lettore si ritrova con un bagaglio conoscitivo al quale senza ombra di dubbio non verrebbe mai applicata la famosa tassa per il sovrappeso.

Michael Leigh «walks on the safe side» (a dirla con Lou Reed), il che rende davvero difficile credere che una band come The Velvet Underground abbia preso il proprio nome, nome che sarà inconfondibile e sinonimo di mondi che fino ad allora erano rimasti nascosti o sepolti grazie a stolti preconcetti, da questa inchiesta superficiale, i cui scarni contenuti risultano alla mercé di inconcepibili preconcetti. Piuttosto: che sia stata una reazione allergica quella di Lou Reed e dei suoi compagni? Davvero non riusciamo a spiegarcelo in altro modo.

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