Gianni Cerasuolo
In memoria di un campione

Sognare coi piedi

Eusebio per i portoghesi è stato come Amalia Rodrigues, come Manuel Oliveira o come José Saramago. O come Pessoa. Un calciatore tra poeti, scrittori, cantanti. Per il mondo, è stato un mito

«Il mito è quel nulla che è tutto» dice il verso iniziale dell’Ulisse di Pessoa. Eusebio da Silva Ferreira (71 anni) è stato un mito, cioè tutto. Non solo per il Portogallo. Per loro è stato come Amalia Rodrigues (la sovrapposizione è di Mourinho), come Manuel Oliveira o come José Saramago. O come Pessoa. Un calciatore tra poeti, scrittori, cantanti. Per noi che siamo innamorati di una palla che rotola sull’erba è stato l’agilità e la potenza non muscolare, la corsa felpata e rapida e il tiro al fulmicotone, la velocità e l’uomo solo al comando di una ciurma di undici uomini. Ti sia lieve la terra, vecchia Pantera.

C’è stato un periodo, negli anni Sessanta, un cui la Pantera nera venuta dal Monzambico, quando i soldati di Salazar presidiavano ancora le colonie prima di rivoltarsi molto più tardi contro la dittatura piazzando dei garofani nella canna dei fucili, sembrava facesse sbiadire il più celebrato collega sudamericano, uno che si chiamava Edson Arantes do Nascimento, detto Pelè, detto la Perla nera. Lo aveva anche umiliato sul campo. Accadde ai Mondiali di Inghilterra nel ’66. I verdeoro venivano dai trionfi del 1958 e del 1962 e Pelè era già Pelè. Ma quella di Vincente Feola era una nazionale in disarmo, senza più Didì e Vavà. La Perla nera poi era a pezzi. Lo fecero a pezzi anche i difensori del Portogallo e c’è un’immagine – mi ricordo leggendo sul web Storie di calcio – in cui Eusebio accarezza la testa de o’ rey dopo un fallaccio, l’ennesimo, subìto dalla stella del Santos, quasi a volersi scusare per avere dei compagni un po’ tosti e scarponi. Fu il tracollo, Eusebio infilò due volte la porta di Manga. Era lui, il ragazzo salito a Lisbona a sedici anni da Maputo, la stella di quei mondiali. Con la Corea, quella di Pak Doo-Ik, quella che prese a pomodori in faccia Bulgarelli e Mondino Fabbri, Eusebio si scatenò quando la nazionale rossoverde era sotto di tre gol. Lui ne fece quattro, finì 5-3. Poi Pelè continuò ad essere Pelè: ce ne saremmo accorti, proprio noi della staffetta Mazzola-Rivera, quattro anni dopo a Città del Messico.

eusebioDoveva venire anche i Italia, Eusebio. Si diceva alla Juve. Di certo, aveva quasi firmato un contratto con Angelo Moratti per andare ad infoltire la grande Inter di Herrera ma quella sconfitta storica della nazionale italiana, impose l’autarchia, la chiusura delle frontiere per un po’. Ed Eusebio rimase al Benfica. La sua casa, la sua nazione, il suo santuario. L’Africa era ormai lontana. Ma se la portava dentro in qualche modo. Forse nelle sue scaramanzie. Raccontava dieci anni fa al Corriere della Sera nel corso degli Europei portoghesi: «Ho le mie scaramanzie de boa sorte, e guai a chi non crede. Sì, bacio la terra in modo particolar ma altre cose le improvviso, dipende dalla partida. L’unica sicurezza è la mia sciarpa bianca che arrotolo e stringo nei momenti difficili fino a farne quasi un fazzoletto. Poi, se va bene, da fazzoletto diventa una bandiera…», diceva in un italiano particolare a Gian Luigi Paracchini.

La grandezza di Eusebio sta forse in questo: aver attraversato a lungo il calcio mondiale, sebbene alla periferia dell’Impero del balao, avendo di fronte grandi personaggi calcistici e non pizza e fichi. Non è stato per lui come per Cristiano Ronaldo oggi… Messi e pochi altri a contendere la palma del migliore. No. Lui ha visto la decadenza di gente che si chiamava Di Stefano, Puskas, Gento, ha incrociato il fulgore di Rivera, Pelè, Beckenbauer, Bobby Charlton, Altafini, Mazzola, i primi che mi vengono in mente. Uscendone spesso vincitore. D’accordo, era un altro calcio, più lento e scontato. Ma non credo che gente come lui sarebbe rimasta in panchina anche nel calcio dei nostri giorni. Lui rifletteva e si inorgogliva: «I calciatori di oggi guadagnano una sacco di quattrini e va bene così. Ma io credo che Pelè, Rivera e il sottoscritto avremmo giocato bene nel Chelsea di Abramovich». E aveva ragione.

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