Pier Mario Fasanotti
Consigli per gli acquisti

Pinochet non cantava

Tre storie censura: Antonio Skàrmeta racconta quella del Cile alla fine della dittatura; Le Clézio quella che ci impongono le parole stesse; Mario Lentano quella diffusa nell'Antica Roma

IL VALZER DEL NO. Augusto Pinochet salì al potere in Cile con un golpe militare, nel ’73. Durante la sua dittatura ci furono 40 mila sparizioni, 600 mila tra arrestati e torturati. Nell’89 la giunta indisse un referendum: vinsero gli oppositori, che votarono “no”. Lasciò il potere nel ’90 rimanendo però capo delle forze armate fino al ’98, infine senatore a vita con immunità parlamentare. Dopo l’estradizione tornò a Santiago e riuscì a evitare tutti i processi intentati contro di lui. Questa è storia. E nei mesi che precedettero il referendum s’inserisce l’ironico romanzo di Antonio Skàrmeta, molto noto in Italia per Il postino di Neruda (da cui fu tratto il bel film con Troisi). Einaudi ha appena pubblicato l’ultima sua opera intitolata I giorni dell’arcobaleno (170 pagine, 19 euro).

I giorni dell’arcobalenoTra sarcasmo, violenza e parentesi di pura comicità, Skàrmeta racconta la vigilia del referendum, dando prima un flash del clima di sospetto e di crudeltà d’un paese finito sotto i tacchi pesanti degli stivali militari. Per esempio :una mattina la polizia entra in una classe di liceo e arresta il professor Santos, che insegna filosofia. La sua colpa è aver insistito sul “mito della caverna” di Platone in chiave politica: noi siamo tutti zombi che guardano il muro dell’anfratto cose che non sono reali ma soltanto ombre. Ma questa sorta di schiavi – ed è qui la metafora –credono che l’apparenza sia la realtà. Il valore che conta veramente, diceva il docente all’imbambolata figlia che seguiva alla tv i gesti enfatici di Pinochet, è l’etica. Il padre di un compagno della ragazza, Adriàn Bettini, uno dei più noti e bravi pubblicitari del paese viene stranamente convocato dal famigerato ministro degli interni Fernandez. Questi gli propone di passare dall’altra parte e organizzare la campagna del “sì” a Pinochet. C’è un esilarante quanto fosco dialogo tra i due, durante il quale il ministro ribadisce la sua tesi: la democrazia è solo “un’esagerazione delle statistiche”. Con pochi mezzi, lunghe discussioni e dissensi tra gli stessi oppositori, Bettini compone una canzonetta contro i regime. Il ministro, convinto di vincere, è un furbacchione prepotente. Dice: «Pinochet ha le palle, lei ha solo canzoni». Il frantumatissimo (ed è su questo punto che si sente forte e sicura la Giunta) fronte del no però vince. In quindici minuti sono distrutti quindici anni di prepotenza politica e il paese, inebetito dal consumismo e dal conformismo forte e onnivoro, fa fatica a scuotersi dopo «la mareggiata della dittatura». Bettini e l’ex ministro s’incontrano ancora, tra mezzi sorrisi e battute. Tra cui quella di Fernandez: «Lei deve ammettere che Pinochet ha fatto una cosa geniale mettendo in circolazione la carta di credito: è l’unico modo di avere ciò che non si può avere. Dopo di che, il disastro».

Storia del piede e altre fantasieSTELLE ASSENTI. Per apprezzare la prosa di Jean-Marie Gustave Le Clézio occorre attenzione, estrema sensibilità ai particolari e anche un certo amore per la lentezza. I lettori di questi ultimi anni, o almeno alcuni, hanno queste peculiarità? Ho dubbi, ma mi aggrappo alla speranza. L’editore Gremese ha pubblicato la sua raccolta di racconti, Storia del piede e altre fantasie ( 317 pagine, 20 euro). È il primo libro scritto da Le Clézio (Nizza 1940, ma naturalizzato mauriziano) dopo aver vinto, nel 2008, il premio Nobel. Dieci racconti che entrano come lame affilate nel mondo della periferia, in ambienti di miseria e di tanta solitudine. Il narratore nizzardo (oltre trenta libri pubblicati) afferra alcuni particolari, li acchiappa come se fossero farfalle e le viviseziona, ponendo in risalto la fatica del vivere. Con pochi ed essenziali cenni descrive l’ambiente, coglie le voci. Scegliamo, e non a caso, il racconto “Amore segreto”, collocato in un’arida e torrida periferia dove il cielo è giallo e l’ombra della sera è riposo e speranza per Andréa, una donna abbandonata dal marito e spezzata dalla fatica sui campi. Sua fonte di gioia è il cardinale, l’uccellino «che ha gli occhi segnati da una sottile linea di kohl e viene per guardarsi sul vetro trasformato in specchio dal riflesso del crepuscolo». La donna l’aspetta ogni sera. Intanto frequenta le ragazze rinchiuse in un istituto di correzioni – ladre, omicide, prostitute – alle quali dà i suoi racconti. Condivide con esse le storie che inventa, con fiducia assoluta nelle parole, strumenti che potrebbero essere una liberazione da un brutto passato, una ventata d’aria fresca, occasioni per riflettere e ragionare smettendo così le urla volgari e aggressive. Racconta loro delle stelle, ma anche di disgrazie umane, di abbandoni, di dispiaceri. «In prigione – scrive Le Clézio – le ragazze sono rinchiuse come bestie feroci in gabbia». Andréa scrive le sue storie sul suo taccuino, divorata dall’artrosi ma estremamente determinata a far sì che le detenute non comunichino sempre con parolacce e che non corrano sempre “come oche”. Loro, le femmine senza stelle. Andrèa, sempre vestita di grigio sta ritta sulla sedia, aspetta l’uccellino cui ha dato un nome femminile. E pensa: «Il mondo è uno». Poi si sorprendere a sorridere, «come se questa ovvietà un poco vanitosa” annota lo scrittore francese “significasse veramente qualcosa».

La memoria e il poterePAGINE PROIBITE. È verosimile immaginare che la censura sia nata con l’invenzione della scrittura all’interno di una società organizzata, meglio ancora se dominata da un potere forte. Il libero pensiero molto spesso è un’arma più tagliente di un pugnale. Il ricercatore universitario Mario Lentano esamina il fenomeno nell’antica Roma, nell’opera intitolata La memoria e il potere (edito da Liberilibri, 171 pagine, 16 euro). Un libro ottimamente scritto che ha alle spalle un’ingente ricerca documentaria. Nell’introduzione l’autore ricorda quel che scrisse (ma prudentemente tardò a pubblicare) Tacito, il più grande storico dell’età imperiale. Come molti scrittori scomodi ai vari “principi”, Tacito scrive una biografia. Più precisamente quella di suo suocero Giulio Agricola, funzionario virtuoso e vittima dell’assurda e volgare censura dell’imperatore Domiziano. Lo storico ricorda episodi di roghi di libri nell’intento di cancellare la memoria, quella che non fosse più laudatoria verso chi comandava. Parla di «…espulsione in massa decretata contro i maestri di filosofia e di esilio di tutte le altre discipline, affinchè in nessun luogo fosse possibile imbattersi in qualcosa di onesto». E ancora: «Abbiamo dato davvero una grande prova di sopportazione; e come il passato ha conosciuto a quali limiti estremi può giungere la libertà, così noi abbiamo fatto analoga esperienza per la schiavitù, mentre lo spionaggio generalizzato ci privava persino della possibilità di parlare ed ascoltare». Parole forti, che si riferiscono a un decreto di Domiziano che proibiva perfino il “loquendi audiendique commercium” (scambio della parola e dell’ascolto). Nello stesso tempo Tacito sfiora una nota di ottimismo: è difficile, se non impossibile, assassinare la memoria. Questo ci ricorda il romanzo Fahrenheit 451 di Roy Bradbury, il quale descrisse una società dove erano vietati i libri e la reazione di una comunità che, imparando a memoria i testi, diventavano così “libri viventi”. Mario Lentano riferisce quanto raccontava Seneca, cioè di un riccone romano che s’era circondato da vari schiavi, ciascuno dei quali conosceva a memoria l’Iliade, l’Odissea e altre opere importanti. Anche Ovidio, brillante frequentatore di salotti della “metropoli di marmo e di oro” venne esiliato. Perché? Il poeta è reticente sulle cause. Che potrebbero essere due: una faccenda di corna all’interno della corte di Augusto oppure bandito per la sua Ars amatoria (molto letta anche dalle donne, sue ammiratrici). L’opera probabilmente fu considerata troppo libertaria, se non libertina, da un imperatore che intendeva moralizzare i costumi delle matrone romane. Non c’era più Mecenate, silurato attorno al 20 A.C.

Facebooktwitterlinkedin