Domenico Calcaterra
Una novità di Feltrinelli

La stecca di Gardini

"Fauci", il nuovo romanzo di Nicola Gardini, gioca con la lirica per costruire una storia di schermaglie e veleni incrociati, di cinismo e falsità. Senza mai riuscire a intonare l'acuto giusto

È il caso di dire “largo al quadrupede”, per rimanere in tema con lo sfondo operistico di Fauci (Feltrinelli, 2013), il nuovo libro del saggista e romanziere Nicola Gardini, un «romanzo musicale in cinque parti», scrittura (almeno nelle intenzioni) teatrale, operetta buffa da camera con la quale l’autore (come ci dice nel risvolto) cerca di proseguire, da un’angolazione inedita, la sua personale indagine sulla cattiveria e l’ipocrisia umana. Qui il quadrupede non è il toro della Traviata, bensì Titus, uno spitz finnico, tutt’altro che signore della festa, oggetto dei maltrattamenti di una padrona isterica e spettatore latrante (e cieco, scopriremo) di una singolare famiglia, con la quale viene a contatto il narratore Sergio Gandolfi, in virtù dell’amicizia particolare con il raffinato commilitone Marcello Filangeri, diplomando all’Accademia di arte drammatica. Scandita in agili capitoletti aperti da sistematici rimandi in esergo a celebri arie del melodramma, ne vien fuori una storia di schermaglie e veleni incrociati, di cinismo e falsità, che vede stagliarsi, sul proscenio milanese di una villa alto-borghese e di una caserma, la sola icona grezza del malcapitato cane, simbolo, un po’ troppo fulmineo, di un’offesa e smarrita autenticità.

gardini fauciPotremmo ascrivere questo romanzo al sottogenere, abbastanza frequentato negli ultimi anni, della commedia grottesca. Penso a un libro sottovalutato come L’invenzione del balcone (Bompiani, 2011) di Gene Gnocchi, che mette in scena il declino da basso-impero del nostro Paese facendoci ridere amaro; oppure ai repertori manicomiali d’un mondo fuori sesto in romanzi come La casa del sollievo mentale (Nutrimenti, 2011) di Francesco Permunian o A gran giornate (La Linea, 2012) di Claudio Morandini. O ancora, si pensi alla dissacrante black comedy sui vizi del mondo letterario innalzato a paradigmatico specchio della società italiana, ne I pappagalli (Fandango, 2012) di Filippo Bologna.

Per quanto punti in alto scomodando come riferimenti addirittura lo humor di un Vargas Llosa e la facilità di scrittura di un Isherwood, Gardini fallisce, in pieno, tanto nella messa a punto del plot narrativo quanto sul piano, di sostanza, dello stile. Giocato d’agilità, insistendo su di un eccitato prestissimo, la sua commedia d’interni rimane, infatti, del tutto esterna, poco più che un frettoloso canovaccio privo anche dell’appeal d’antan di “quei più modesti romanzi” (si rammenti il bel saggio sui libretti verdiani di Mario Lavagetto) cui sembra voler strizzare l’occhio. Sicché alle intenzioni presupposte fa seguito un dettato assai fragile, senza lievito, prevedibile e incollato; del tutto privo di spessore letterario. E il cui meno che cartoonistico grado zero riesce, al più, come esatto contraltare, per rimanere ancora ai recenti esiti della commedia narrativa italiana, alla non meno vacua e sovreccitata ipertrofia del Romanzo [poco in verità] irresistibile (2012) di Gaetano Cappelli.

Basterebbe poi accostare Fauci all’esperimento condotto, al suo esordio, dall’ottimo Fabrizio Ottaviani con La gallina (2011), per farne risaltare tutti i difetti. Capace di creare un essenziale quanto micidiale meccanismo narrativo nel quale trama e scrittura rappresentano un unicum coeso, un congegno perfetto che nulla reca di superfluo, Ottaviani offre un’impietosa messa a fuoco del paesaggio, desolante, delle nostre miserie private e collettive. Dove un bizzarro e buffo dono (proprio la gallina del titolo), recapitato da una misteriosa vecchietta a casa di una famiglia dell’alta borghesia, funge da grottesco detonatore che minerà, fino all’inevitabile catastrofe, l’apparente normalità della vita dei protagonisti. Di là da talune analogie (milieu alto-borghese, elementare dialettica tra i personaggi, il mirare a quel sostrato d’ipocrisia e cinismo inevitabile nei rapporti umani, un animale come protagonista e catalizzatore del racconto), il libro di Gardini ne rimane lontanissimo: il comico non s’invera, i nodi nevralgici della trama appaiono poco funzionali e frettolosamente sviluppati; al punto che tutto l’insieme sembra somigliare a un motore che gira a vuoto, avendo la forza, implosa, di una banalissima concentrata metafora, una sgonfia similitudine abbreviata. Si tratta perciò dell’ennesimo azzimo della narrativa italiana di questi anni, del trionfo della totale assenza di stile. Dimentichi del fatto che senza stile non c’è romanzo, non c’è storia che tenga, non esiste letteratura. In uno dei suoi aforismi contenuti ne L’inferno del romanzo, Richard Millet scriveva che «i romanzieri più interessanti sono quelli dotati di orecchio musicale». Ecco, Nicola Gardini, con il modesto e insipido Fauci, fa assistere il lettore alla più prevedibile e annunciata delle stecche.

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