Chiara Tozzi
La strategia del caos

La mensa grillina

La democrazia non è più il luogo del confronto per il bene comune, ma lo sfondo di una gara perenne a chi urla più forte per sopraffare il "nemico". E il senso civico scompare

All’inizio degli anni Novanta mi ritrovai coinvolta in una problematica che riguardava una scuola elementare: il problema della ‘sala mensa’. La scuola in cui si trovava quella mensa era moderna per quanto riguardava l’impostazione della didattica – di stampo montessoriano – ma abbastanza antiquata e malandata come edificio. Ogni anno venivano effettuati lavori di ristrutturazione, e le magagne venivano tamponate di volta in volta alla meno peggio. Ma quello che affliggeva docenti e genitori, era il problema della mensa. L’ambiente che ospitava la mensa era una sala molto ampia, con soffitti alti e grandi vetrate sul giardino; niente da eccepire sullo stato delle sue pareti, sugli infissi e sul riscaldamento; no, il problema era un altro: l’acustica. Molti rappresentanti dei genitori, su segnalazione dei figli, si erano recati a ispezionare di persona la mensa durante uno dei pranzi… ed erano tornati a riferire, costernati: sì, il baccano e il frastuono erano assolutamente intollerabili; al punto che chi parlava, non udiva nemmeno la propria voce.

Dunque, iniziarono le consultazioni per capire come risolvere il problema. Cambiare sala e dividere i ragazzi in ambienti diversi e più piccoli? O insonorizzare? Provai ad avanzare la mia proposta: e perché non proporre ai ragazzi di abbassare la voce? Non fui nemmeno ascoltata: quello del pranzo era un momento di pausa e di sfogo per i ragazzi; uno spazio di libertà fra le ore di studio, e di possibilità di manifestarsi, ridere, parlare, scherzare e sì, anche gridare. Così, la sala fu insonorizzata. I lavori furono fatti; e dopo, se ti capitava di entrare mentre i bambini mangiavano, sentivi sempre un gran frastuono: ma almeno, la tua voce, quella la percepivi.

Mi torna in mente spesso questo episodio, da diversi anni a questa parte, assistendo al mutamento del modo di relazionarsi fra persone in Italia. Non solo in ambito privato – sarebbe il meno – ma più che altro nel contesto pubblico: quello della politica, della cultura e dello spettacolo. Dalla metà degli anni Ottanta in poi, la superficiale appropriazione di una concezione libertaria e liberante dell’individuo, esito delle battaglie innovatrici del ’68, ha progressivamente capovolto il modo di concepire il comportamento individuale nel relazionarsi agli altri: sia per quanto riguarda i diritti e i doveri, sia per quanto riguarda il modo di manifestare, difendere e tutelare tali doveri e diritti. Se fino agli anni Settanta democrazia significava sistema di governo in cui la sovranità è esercitata direttamente o indirettamente dall’insieme dei cittadini, successivamente democrazia è diventato, nell’immaginario collettivo italiano, «avere il diritto individuale di fare quello che ci piace, che ci serve e che si ritiene giusto… per noi stessi, come individui». Questa concezione, che si traduce nella pratica in arrogarsi ogni diritto, nelle modalità individualmente preferite, ha da una ventina d’anni i suoi riflessi più plateali nel modo di concepire, incarnare e fare politica: così, chi è stato eletto a far parte del parlamento italiano, per legiferare a favore degli italiani, pare invece legittimato a manifestare e difendere se stesso da quelli che paiono avversari, battagliando più per «averla vinta» come persona che per la difesa di un diritto collettivo. È la soddisfazione personale (al massimo estendibile a un ristretto clan di gregari, che a volte si identifica nei propri compagni di  partito, a volte nelle correnti frantumabili e perennemente mutabili del medesimo) il fine ultimo; è l’offesa personale e la frustrazione individuale l’ostacolo da evitare e da respingere. I cittadini, gli elettori, coloro per cui e da cui si è stati eletti, restano in secondo piano, sfocati in una sorta di fermo immagine che si rianima e si rimette a fuoco in prossimità delle occasioni elettorali. E anche le modalità per portare avanti la politica, in questa distorta concezione, sono di conseguenza distorte: non modalità che tengano conto della pluralità di voci e di un ordine inevitabile per regolare le procedure di discussioni e decisioni; no, perché questo metterebbe argini alla propria libertà individuale di reagire e manifestarsi. Vale di più il cosiddetto «aprir bocca e dare fiato», se se ne ha voglia; così come vale qualsiasi imposizione, pretesa, entrata e uscita dal gioco politico; e chi più la dura, più la vince.

Seguendo l’andamento – o meglio: la stasi – della politica italiana nell’ultimo ventennio, assistendo ai continui battibecchi all’interno dei partiti e alle risse in parlamento amplificate e platealizzate dai talk show televisivi e dai giornali, mi torna in mente sempre più spesso quella assordante mensa scolastica di una scuola elementare. E sono sempre più convinta che il rimedio giusto per bonificare quella mensa sarebbe stato insegnare con fermezza a quei bambini urlanti che quando si è insieme agli altri la nostra voce deve obbligatoriamente abbassarsi: per poter ascoltare le voci altrui più che la propria e per favorire, così, il benessere collettivo.

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