Laura Novelli
Dopo il debutto del "Guaritore"

La medicina teatrale

Incontro con lo scrittore Michele Santeramo: «Nel nostro teatro c'è bisogno di contemporaneità. Ma guai a parlare di drammaturgia... è una definizione respingente. Io dico: sono uno che racconta storie attuali!»

Nel 2001 ha fondato, insieme all’attore Michele Sinisi, la compagnia Teatro Minimo, con sede a Terlizzi. In quella Puglia felix che negli ultimi anni ha goduto di illuminati interventi istituzionali a sostegno del teatro locale e, tanto più, degli artisti giovani (basti citare i progetti Principi attivi, Bollenti spiriti, Ritorno al futuro). Da allora a oggi Michele Santeramo, autore autodidatta formatosi sul campo (Eduardo come maestro princeps e poi amori letterari quali Soriano e Calvino), ha scritto numerosi testi, ha diretto spettacoli, ha stretto collaborazioni con strutture produttive importanti (prima fra tutte, la Fondazione Pontedera Teatro), ha piazzato in finale al premio Riccione 2009 il suo Sequestro all’italiana e, due anni dopo, ha vinto il medesimo premio con Il guaritore. Testo che, si legge nelle motivazioni della giuria, «non rinuncia mai all’efficacia scenica di quello che rappresenta. Lo spettatore è condannato a chiedersi se è di fronte ad una narrazione naïf o elaborata, se è l’autore o se sono i personaggi o gli attori a condurre il gioco […], un gioco che ci piomba in un mondo che è il nostro, un mondo senza certezze, un mondo liquido, […] dove gli esseri umani, con tutti i loro difetti, non smettono mai di aggrapparsi alla speranza che sia il confronto con un altro essere umano a salvarli».

Il relativo spettacolo, debuttato al festival Castel dei Mondi di Andria quest’estate e diretto da Leo Muscato, ha visto la sua prima al Valle Occupato di Roma nei giorni scorsi, prima di iniziare una corposa tournée che lo porterà in Sicilia, Toscana e Veneto.

Colpisce nel lavoro la capacità di raccontare una storia sospesa tra realismo e virate nell’assurdo, toni popolari e lirismo “alto”, ritualità sciamaniche e bozzetti umani paradossalmente strazianti. E colpisce, ancor più, la figura del vecchio guaritore, magistralmente interpretata da Sinisi: barba lunga, occhiali, flebo al braccio, picchi d’ira alternati a fanciulleschi sonni etilici, questo nonno meridionale in pigiama e camicia bianca cura le anime dei suoi fragili pazienti (cui danno corpo e voce Vittorio Continelli, Paola Fresa e Simonetta Damato) incrociando le loro storie, mettendo in relazione esperienze, malesseri, dolori, paure, per ricordarci (ammonirci?) che solo l’apertura verso il prossimo, e dunque solo il rito – oggi terribilmente tramortito – del dire e dell’ascoltare l’altro può aiutarci a sopportare la complessità della vita. E può, in modo più allusivo, ricondurre il teatro alla sua reale funzione terapeutica, pedagogica. Forse semplicemente “umana”. Lo spiega bene lo stesso autore quarantenne, parlando al telefono da quella Puglia amata dove vive e lavora.

michele santeramoCome è nata l’idea di quest’opera?

Anni fa io e Michele Sinisi abbiamo conosciuto un contadino che dalle nostre parti, per la precisione a Corato, fa davvero il guaritore, cioè guarisce fisicamente le persone e mentre elargisce le sue terapie, del tutto gratuite, ascolta le canzoni di Elvis Presley e Adriano Celentano. Quell’incontro ci ha molto colpiti e abbiamo iniziato a riflettere, a interrogarci su come trasferire un personaggio così a teatro, su cosa rappresenti un guaritore per il teatro. A ben vedere, il guaritore è il teatro stesso, perché in fondo quest’arte dovrebbe proprio curare, alleviare gli animi degli spettatori mettendo le storie in relazione, innescando una comunicazione autentica tra la scena e la platea.

Dunque il testo possiede una forte intenzione metateatrale?

Sì, ma né io né il regista abbiamo voluto forzarla troppo o enunciarla esplicitamente. Il mio guaritore non pretende di curare realmente; semmai si limita a convincere il paziente a scegliere, a prendere una strada, ascoltando il problema dell’altro. In questo caso due donne: una, moglie di un pugile ormai fallito, che teme di non poter avere più figli e un’altra che invece, scopertasi incinta, vorrebbe disfarsi del suo bambino. Egli le stimola a capire se stesse, a sentirsi veramente nel profondo.

La lingua risulta molto caratterizzata: un dialetto pugliese con sfumature e accenti diversi. Come ha operato sotto questo profilo?

Volevo restituire l’idea di una lingua di terra, una lingua delle mie parti, e più o meno tutti i personaggi hanno un accento chiaramente pugliese. La lingua del guaritore però è diversa dalle altre: è più sporca, più intrisa di intercalari, ma anche più presuntuosa, quasi volesse darsi un tono. Direi, meglio, che la sua è una lingua “sporcata”. Anche la regia di Muscato ha insistito su questo aspetto e in prova ci siamo divertiti molto ad intervenire sulle battute.

Ciò si lega anche al doppio registro del testo, un po’ farsa e un po’ tragedia. Questo gioco drammaturgico per cosi dire “anfibio” risponde ad una scelta precisa? 

Ho scritto il testo con la precisa intenzione di lasciare emergere due linee: una popolare e una più aulica. Il registro basso viene attivato soprattutto nel rapporto tra il protagonista e il fratello (in scena c’è Gianluca delle Fontane, ndr) e si traduce in farsa. È lui, infatti, che suona la trombetta durante il rito della guarigione ed è sempre lui che innesca continui battibecchi con il vecchio guaritore. È una figura contraddittoria e fa virare la tragedia in commedia: vorrebbe persino prendere il posto del fratello ma sa di non esserne all’altezza e non a caso, davanti alla responsabilità, si sottrae.

Anche in questo caso ha lavorato con e per interpreti che conosce bene. Che garanzie offre oggi investire in questo modello di creazione condivisa?   

Molte. E anche da questo punto di vista godiamo di opportunità create dalla politica culturale pugliese degli ultimi anni. La nostra realtà si inserisce, infatti, nel quadro del progetto Residenze della Regione Puglia; nello specifico, noi siamo un gruppo semistabile di artisti locali costituitosi in compagnia civica. Questo tipo di sinergia ci garantisce un reciproco supporto. Mi spiego meglio: le compagnie danno stabilità lavorativa a lungo termine agli attori e in cambio ottengono una riduzione delle spese. Se la formula è già vantaggiosa dal punto di vista economico, ancora di più lo è da quello artistico: si cresce insieme attraverso un percorso comune e questo è molto positivo. Prima de Il guaritore abbiamo già allestito L’arte della commedia e La rivincita.

il-guaritore 2Altra sinergia importante è quella con Pontedera, che produce lo spettacolo insieme a Teatro Minimo: collaborerete anche in futuro?   

Sono diversi anni che Pontedera Teatro sostiene i nostri progetti. Collaboriamo dal 2007 e per noi è stato ed è un rapporto importantissimo, di grande sostegno e arricchimento. Abbiamo già in cantiere un altro spettacolo, su scrittura mia e regia di Roberto Bacci. Si intitolerà Alla luce e in scena ci saranno quattro ciechi che giocano a carte e riacquistano la vista. Un testo divertente.

Sembra doverosa a questo punto una riflessione sul premio Riccione. Cosa ha comportato nella sua carriera?

È stato molto importante, in termini soprattutto di visibilità. Già nel 2009 ero arrivato in finale con Sequestro all’italiana ma il riconoscimento del 2011 ha segnato uno spartiacque emblematico: ha dato riconoscibilità ad un percorso lavorativo ed artistico che dura da 13 anni.

Mai pensato di scrivere racconti o romanzi?

Già fatto. Ad aprile uscirà per Baldini & Castoldi il mio primo romanzo, La rivincita, ispirato al medesimo lavoro teatrale. Non mi pongo limiti, perché in fondo quello che davvero mi interessa è raccontare il mondo odierno.

Ma, visto che il mondo odierno lascia così poco spazio alla cultura e al teatro, non ha mai sentito il desiderio di mollare e cambiare strada?

No. Quando vado dagli amministratori locali per parlare dei miei lavori, non dico mai di scrivere drammaturgia contemporanea perché questo aggettivo suona sempre come una parola spaventosa. Allora, pur essendo contemporaneo in quanto sono vivo, dico semplicemente di essere uno che per mestiere racconta storie attuali. Funziona!

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