Angela Scarparo
Una scrittrice al cinema

È il denaro, bellezza!

Ancora una volta Martin Scorsese, con occhio mite, ci dimostra che è impossibile rimanere puliti, quando si vive in un sistema in cui l’unica cosa che conta è la quantità di denaro che possiedi

Forse solo Willam Burroughs nei suoi deliri psichedelici – o Allen Ginsberg in Plutonian Ode – è  stato capace di compilare un tale elenco di mostruosità, bassezze, debolezze, piccolezze di una classe sociale, quella che all’epoca si sarebbe detta «borghesia». O Todd Browning in Freaks per la cura e l’accortezza maniacale con cui sceglie e descrive i soggetti e le loro manie. Certo è che il nuovo film di Scorsese, The wolf of Wall street (clicca qui per leggere la recensione di Alessandro Boschi), nonostante la macchina da presa continui farfallescamente a volteggiare fra corridoi di persone sorridenti, compie una durissima requisitoria su ciò che gli uomini e le donne possono diventare, se solo gliene dai l’occasione.

Il soggetto: un uomo, Jordan Belfort, ambizioso e intelligente, nel 1987, decide di diventare ricco,  di farlo con mezzi leciti, e con una moglie carina e che gli dà buoni consigli, a casa. Solo che invece, capitolerà. Diventerà ricco, sì, ma con mezzi tutt’altro che leciti. Questa è solo una delle due storie, di cui è fatto questo grande film. L’altra, buona parte del film, è la descrizione, morfologica e mai caricaturale, di un gruppo di persone, di una classe sociale, di un insieme di individui, (tutti quelli e quelle che lavorano con Belfort), cui sta a cuore esclusivamente il proprio benessere, e che vuole solamente una cosa: fare soldi. Li vuole per poter andare tutte le sera a cena nei migliori ristoranti, per potersi comprare il vestito di Armani, per poter avere la bella macchina, per poter viaggiare, avere i denti più bianchi del vicino, donne (o uomini), case grandi (e pacchiane), capelli (e parrucchini) all’ultima moda, e «divertimento, tanto divertimento».

the wolf of wall street 5Non c’è un progetto, non c’è una cultura (che non sia quella dell’approssimazione, dell’arrivismo, della piaggeria, del debole contro il forte), non ci sono famiglie da proteggere o da difendere, dietro i desideri (di questi brandelli) di una «middle class» che ha ormai perso tutti i punti di di riferimento, e che vuole solo prendere, senza mai dare, e che per avere quello cui tiene (denaro, denaro, denaro) sfrutta tutte le risorse che ha.

Non che gli europei siano diversi: con le loro casette «tutte colorate» a Portofino gli italiani, (grazie alla fotografia di Rodrigo Prieto), gli splendidi vestiti fatti a mano del banchiere svizzero (di contro alle orrende cravatte americane di cui il film è costellato: brava la costumista Sandy Powell) e il pensiero fisso al «divertimentificio»: (sempre gli italiani, che si mettono a ballare, in un sorta di automatismo della risposta, anche nelle situazioni più drammatiche, come è il salvataggio di un gruppo di persone la cui barca sia appena affondata). Sono piagnoni, drogati, traditori, mollaccioni, lamentosi, esagerati, furbastri, melodrammatici, gli esseri umani di cui Scorsese popola il suo film. Sono scimmioni, questi americani.  Sono quelli cui piace prendere le briciole dal tavolo, obbedire al capo, adularlo, seguirlo nelle sue idiosincrasie e deliri di onnipotenza. Quei pochi che non tradiscono, e che vanno in galera pur di tenere la bocca chiusa, vengono da classi sociali più modeste, muoiono giovani, d’infarto a trentacinque anni, nonostante o forse proprio per l’eccesso di ginnastica e attività fisica.

Non è un film «divertente», questo. O almeno, non lo è, nella sua accezione più classica. È un affresco in cui sono catalogate «classicamente» le virtù (poche) e i moltissimi vizi di cui sono fatti le donne e gli uomini, cui sia capitato di vivere, alla fine del secolo ventesimo. È un film che contiene involontarie citazioni di tutti i suoi film, di tutti quelli che ha girato prima: (Fuori Orario, per il giovane che arriva nella grande città, con la tranquilla ingenuità del neofita ; Goodfellas, per il gruppo di mafiosi disadattati violenti che agisce contro la legalità; Il colore dei soldi per il rapporto allievo/maestro che presuppone un’attività come è quella di accumulare del denaro; Toro Scatenato, e Casino, per gli esiti disastrosi della storia d’amore quando ci siano di mezzo soldi e ambizioni – c’è persino l’attrice bionda e brava, Margot Robbie, che ricorda Sharon Stone). La chiave narrativa, nonostante l’argomento di forte attualità, è letteraria. Non solo perché è tratto dalla biografia del vero Jordan Belfort, ma anche per un altro motivo. L’impasto di tipi umani, di perversione, di comicità (che costituisce la vera materia narrativa di The wolf of Wall street), è tenuto assieme e fatto lievitare da un elemento che appartiene addirittura al Vecchio Testamento: il desiderio di trasformare la merda in oro. Sono esilaranti le scene in cui il bravissimo DiCaprio cerca di fregare il malcapitato cretino che dall’altra parte del telefono, spera nel miracolo di diventare ricco grazie al gruzzoletto che ha messo da parte, così come quelle in cui il Vitello d’oro viene adorato.

La sapienza che Scorsese mette in scena, non è solo quella di un regista appassionato del suo mestiere, ma anche quella di un uomo che giudica ciò che gli sta intorno con occhio mite, ma non per questo meno feroce. In questo senso, la collaborazione, in altri film, con un personaggio come Paul Schrader non è da considerarsi come casuale. Ho sempre pensato che per parlare di mafia, in Goodfellas e di mondanità ne L’età dell’innocenza, Scorsese si sia ispirato al mondo del cinema contemporaneo, quello che lui conosce così bene: ai tradimenti che vi si praticano, agli investimenti economici, non sempre puliti, alle ambizioni riuscite e a quelle frustrate che vi agiscono. In questo film, ne ho avuto la felice conferma. Scorsese, nei suoi film, parla sempre della stessa cosa. L’impossibilità di rimanere puliti, quando si vive in un sistema in cui l’unica cosa che conta è la quantità di denaro che possiedi.

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