Danilo Maestosi
“Essere o non essere" a Roma

L’artista fantasma

La mostra di Giulio Paolini al Macro è un gioco di rifrazioni, di inquadrature e di specchi con cui l’autore confessa da sempre la propria insufficienza e la propria distanza

Essere o non essere, si interroga e ci interroga Giulio Paolini nella mostra, che ha così intitolato, in scena fino a marzo nell’imbuto di sale basse del museo romano Macro. Un po’ un omaggio al rito iniziatico del teatro per il quale l’artista, 74 anni, genovese trapiantato a Torino, dove il suo rigoroso talento concettuale si è fatto strada all’inizio degli anni Sessanta, nutre una speciale passione. Affascinato – spiega «da quell’arte dell’istante che non sopravvive a se stesso se non come pallida memoria di ciò che si è vissuto» e dall’infinito gioco di rifrazioni e rimandi che si consuma tra attori e platea». Ma soprattutto un modo di esternare come linea fondante della sua poetica il continuo conflitto tra opera e autore che è a suo avviso punto di partenza e d’arrivo di ogni disciplina artistica. «Perché – continua a spiegare Paolini – l’opera, riuscita o no, è un in sé già compiuto che impone una propria autonomia, mentre un autore è per definizione incompiuto. Condannato a lavorare e a cercare senso perché non ha ancora toccato il fondo, in cui il percorso della sua anima, la sua voglia di mettersi in discussione, non raggiunge la certezza di una fine».

Per Giulio Paolini lo statuto dell’artista gli impone un ruolo defilato simile a quello dell’archeologo o dell’amanuense «ambedue consacrati alla trascrizione di quelle tracce che l’antichità, così come la contemporaneità, ci tramandano adilà del clamore suscitato dalle voci che occupano la scena». Una presa di distanza rispetto alla deriva di tanti artisti concettuali di oggi «corrotti e compromessi dall’attenzione al mondo reale e dai parametri relativi al consumo sociale». E ancor più dall’idea sempre più diffusa tra i mestieranti del concettuale che al centro della ribalta non sia l’opera ma l’autore, non la creazione ma la loro pura intenzione».

Ma se l’opera è altro da sé, che ruolo può recitare un autore se non quello di un fantasma. Così almeno si ritrae Paolini in una foto del 1997, semplice e spaesante come un oracolo, che ha posto come prologo della sua mostra. Eccolo lì inquadrato a distanza, una apparizione sfocata ed evanescente, affacciato al balcone della sua casa torinese, a sua volta incastonato da un ingrandimento dell’architettura di quella soglia. Eccolo nelle sembianze di attore-demiurgo in altri tre piccoli disegni, sistemati nella terza sala, che lasciano intravedere ma ne coprano  tratti e volto come tessere di un puzzle incompleto. Passi che guidano il visitatore verso quel continuo gioco di rifrazioni, di inquadrature e di specchi con cui l’autore confessa da sempre la propria insufficienza e la propria distanza. Un estraneo eternamente insoddisfatto che rincorre affannosamente l’idea che lo muove, come nell’istallazione Bing Bang che occupa la seconda tappa del percorso espositivo: un cavalletto, una sedia vuota e attorno una distesa di fogli accartocciati, disegni abortiti. L’arte come una partita a scacchi sembra suggerirci l’istallazione che dà titolo alla mostra: tele coperte da disegni geometrici o capovolte a far da riquadri e incorniciare al centro due figure fotografate a grandezza naturale: una che esibisce un album e una penna l’altra che lo guarda con in mano un altro taccuino. Autore e spettatore che si scambiano la parte.

Di grande suggestione il siparietto della sala successiva: una tela illuminata alle spalle delimita lo spazio magico di uno studio d’artista. Magari, perché no?, il Velasquez de Las Meninas, maestro nella moltiplicazione di sguardi, come Borges di cui Paolini espone non a caso ai piedi dell’istallazione un ritratto. E infine l’ultima opera, inedita, realizzata per l’occasione. Al centro una sedia rovesciata a testimoniare che il compito e l’ambizione dell’autore, ogni autore s’intende, sono comunque falliti e come controcanto l’immagine di un pittore chino al tavolo di lavoro su fogli che continua a riempire. Di fronte sulla parete una proiezione di segni bianchi che delineano la metafora di uno studio e le sovrappongono le geometrie prospettiche dello spazio in cui ora sono esposti. « Sipario. Buio in sala» è il sottotitolo che riconsegna l’artista alla nebbia delle sue illusioni e il pubblico alla domanda iniziale: Essere o non essere?

È il dubbio che avvolge anche il futuro del Macro, precipitato con il cambio di giunta in Campidoglio in un tunnel di malumori e incertezze. Nonostante i buoni risultati (in crescita) di gradimento e di pubblico, è escluso il rinnovo del contratto in scadenza per il direttore uscente Bartolomeo Pietromarchi, che ha probabilmente firmato con la mostra di Paolini il suo canto del cigno. Bloccato il progetto per trasformare in fondazione il museo comunale, oggi inquadrato come uno dei tanti uffici della ripartizione cultura: la formula, che pure è stata applicata a due altri grandi contenitori d’arte romani come l’Auditorium e il Maxxi, non convince il nuovo assessore alla cultura Flavia Barca. Nessuna concreta garanzia che si riesca a salvare dai tagli in arrivo per la cultura un budget accettabile per una macchina costosa come il Macro. Poche le speranze di catturare in questi tempi di crisi il sostegno di sponsor privati. Tesi i rapporti con la rete di collaborazione esterna di galleristi e collezionisti che negli anni si era consolidata.

Unico spiraglio è la decisione dell’assessore Barca, maturata dopo mesi di gestazione e ripensamenti e annunciata al vernissage di Essere o non essere, di assicurare autonomia e carburante al Macro, chiamando a gestirlo un direttore esterno, una figura inserita nel circuito del contemporaneo e magari in grado di sfruttarne le spinte senza perpetuarne gli errori, rinunciando all’idea di affidare l’incarico a un funzionario comunale. Il bando – promette l’assessore – dovrebbe essere lanciato entro breve tempo. Tra i candidati si è già fatto avanti Danilo Eccher, che ha già svolto per tre anni quel ruolo nella fase di lancio del museo. E anche Bartolomeo Pietromarchi sembra intenzionato a riproporsi. Non è molto. Ma se non altro è un punto di ripartenza. Utile, se non si sciupa l’occasione, a tentare di invertire la tendenza che piega questo e altri centri consacrati ai linguaggi e alla circolazione del contemporaneo alle logiche distorte del mercato. Troppa attenzione alle quotazioni di borsa, poca alla qualità. In una visione subalterna alle mode e agli interessi in gioco che continua a confondere arte e creatività.

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