Alessandro Boschi
Il nostro inviato a Torino

L’altro festival

Niente a che vedere con Venezia, Cannes e gli altri: a Torino non conta tanto il film che vince, ma il livello complessivo. Noi, per esempio, quest'anno ricorderemo: "Sweetwater" di Logan Miller

Una delle cose migliori del Torino Film Festival è il fatto che difficilmente, a distanza anche di un solo anno, si ricorda il film che ha vinto. E questo non perché lo stesso sia di poco valore, ma perché quello che più impressiona i nostri ricordi è la sensazione di essere stati dentro una atmosfera magica che alla fine ti viene da dire: «Ma come è passato veloce il tempo quest’anno!».  Di fatto, pure in questa edizione, la trentunesima e prima di Paolo Virzì direttore, un film ha comunque vinto, e quello che almeno noi dimenticheremo a distanza di dodici mesi si intitola Club Sándwich del messicano Fernando Eimbcke noto, almeno a noi, per il notevole Sul lago Tahoe.

Saremo onesti, questo film ha meritato di vincere, ma alla stessa stregua, vale a dire dello stesso valore, ce ne sarebbero stati almeno altri due o tre. E questo è un po’ il bello (o il meno bello) di questo festival. Perché se da un lato ci si assicura che il livello sia costante e in genere tendente al molto buono, dall’altro non ti aspetti mai un film che ti faccia gridare al miracolo. C’è da dire che il tutto rientra in un quadro di omogeneità e compattezza che poche altre manifestazioni possono vantare. Il che non significa certo la ricerca di un’aurea mediocritas, di una rassicurante moderazione, ma una progressiva e costante crescita che fino ad oggi ha conosciuto poche involuzioni. E questo è un grande merito. Dei direttori  e dei selezionatori che si sono via via succeduti. Capita anche che spesso la sorpresa sia in una delle sempre interessanti sezioni collaterali. Ad esempio quest’anno per noi il film migliore è stato Sweetwater di Logan Miller, scritto, ed anche interpretato, insieme al fratello Noah. Trattasi di un robusto western che ha sapientemente mescolato ironia e violenza, grandi metafore di grandi valori e piccoli dettagli per amanti del genere. A noi per dirne una ha fatto sobbalzare sulla sedia l’uso di quel luogo, Tucumcari, già sentito ad esempio in Per qualche dollaro in più di Sergio Leone. Ve lo ricordate? Proprio all’inizio, quando Lee Van Cliff, scambiato per un sacerdote, incenerisce il suo compagno di viaggio che gli aveva fatto notare che il treno non avrebbe fatto sosta dove egli desiderava: «Questo treno non ferma a Tucumcari», «Questo treno ferma, a Tucumcari». Indovinate dove si è fermato?

Comunque, abbiamo approfondito l’esiziale questione con i diretti interessati, vale a dire i fratelli Miller. Uno dei due conosceva il film, e gli era piaciuto moltissimo il nome, Tucumcari, ma non pensava che esistesse. Come invece è nella realtà, in quanto Tucumcari è un comune degli Stati Uniti d’America, nella Contea di Quay nello stato del Nuovo Messico.  Sta di fatto che secondo noi questi particolari possono determinare la fortuna di un film, certo, se un film è brutto resta tale, ma se non lo è questo può aiutare nella felice predisposizione di chi scrive. Sweetwater  ad esempio è aiutato moltissimo anche dagli interpreti, un mirabolante Ed Harris, una sfolgorante January Jones ed un inquietantissimo Jason Isaacs. In particolare il personaggio interpretato da January Jones, apprezzata e molto nella serie della AMC Mad Men,  quando siamo prossimi alla catarsi finale si trasforma in un angelo sterminatore indossando la divisa da lavoro, vale a dire il suo completo viola da bordello. Però appunto viola, che è anche un importante e significativo colore liturgico. Insomma, quando uscirà andate a vedere questo film. Magari rivedetevi anche alcuni di quelli riproposti dal festival nelle retrospettive. Ad esempio Lo spaventapasseri di Jerry Schatzberg, oppure L’ultima corvè di Hal Ashby. Ma forse è meglio di no, magari poi vi ricordate com’è fatto un bel film e in sala, a vedere quelli nuovi, non ci tornate più.

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