Nicola Fano
Alla Sala Umberto di Roma

Il coraggio di Cristicchi

Emoziona il racconto civile sull'esodo istriano di “Magazzino 18”, diretto e prodotto da Antonio Calenda. Una pagina vergognosa della nostra storia che il cantautore ripropone con l'intenzione di riparare a un grave vuoto di memoria

Ci vuole coraggio, molto coraggio, in questo lungo e costante vuoto di memoria che è diventata l’Italia, a fare uno spettacolo sull’esodo dei nostri fratelli italiani da Istria e Dalmazia nel 1947. Simone Cristicchi ha avuto questo coraggio: ha imboccato la porta del racconto civile, della memoria da riparare e ha confezionato (con l’aiuto significativo del regista e produttore Antonio Calenda) uno spettacolo che va visto: Magazzino 18. Ora è in scena alla Sala Umberto di Roma, ma girerà molto, speriamo. Diamogli atto di questo straordinario coraggio, innanzi tutto.

Qualcuno non conoscerà la storia. Eccola: quell’angolo d’Italia situato di là da Trieste (Istria, Dalmazia, Pola, Fiume, ecc.) è da oltre cent’anni sottoposto a ogni sorta di violenza morale e materiale. Si blatera di convivenza civile, di accoglienza, di immigrazione clandestina e non siamo ancora riusciti a far convivere – noi italiani – i nostri simili con noi stessi. Gli italiani con gli italiani; gli slavi con i triestini, gli istriani con gli italiani. L’illusione intellettuale del Risorgimento preconizzava un’Italia Unita da Marsala a Fiume, ma ci volle il balletto di alleanze della Prima guerra mondiale per completare il quadro: la solerzia di un diplomatico geniale, Sidney Sonnino, ci conquistò sui tavoli internazionali il Sud Tirolo, ma non riuscì a dire l’ultima parola su Trieste e Pola e Fiume. Ci pensò Mussolini a lavare l’onta del multiculturalismo azzerando ogni identità slava.

A Trieste c’è una splendida trattoria vicino alla Borsa dove si mangia il maiale bollito migliore del mondo e il vino Terrano più pesante e buono di Trieste. Si chiama, semplicemente “da Bepi”. “Giuseppe lo sloveno”, lo chiamano gli italiani garbati; “Bepi Sciàvo” quelli meno garbati: fin dai tempi di Mussolini. Perché da allora sloveno era sinonimo di schiavo. Poi venne la guerra, cadde il fascismo ma a Trieste ne arrivò un altro simile. Lo chiamavano comunismo e invece della scucchia saccente di Mussolini aveva il rozzo mento squadrato di Josip Broz Tito. E cominciò la mattanza: ex vittime del fascismo contro ex gerarchi. Su questo terreno drammaticamente scivoloso si insinuò Tito, spedendo nelle foibe, con il contributo di tirapiedi italiani, tutti coloro i quali si opponevano al suo disegno di far arrivare la Jugoslavia fino a Trieste. Non solo: quando poi un anno dopo Tito ruppe con Stalin il gioco al massacro conobbe ulteriori orrori. Simili contro simili, comunisti contro comunisti. Pensate che il Pci spedì un suo leader storico a far fuori il suo predecessore (che era stato primo sindaco di Trieste libera, per altro) solo perché aveva scelto di non stare dalla parte di Stalin!

Può bastare? No. Il trattato di pace della Seconda guerra (che l’Italia ha perso, contrariamente a quanto si insegna nelle scuole medie) assegnava all’Urss, ossia per il momento alla Jugoslavia, Fiume, Pola, Parenzo, Rovigno, Cherso, Arbe, Veglia e tutte le altre città di quell’angolo di Italia abitato, da sempre, in stragrande maggioranza da italiani. I quali vennero invitati a scegliere: o Tito o la libertà in Italia, ma a prezzo di abbandonare tutto. Un po’ come avevano fatto Mussolini e Hitler quando avevano detto ai sudtirolesi: chi si sente tedesco lasci case e memorie e tradizioni e se ne vada in Austria… Salvo che se gli austriaci hanno sempre accettato (sia pure a malincuore) i cugini sudtirolesi, mentre gli italiani non hanno mai visto di buon grado i profughi istriani: fascisti!, dicevano loro, perché non erano rimasti sotto Tito ed erano venuti a “rubare pane e lavoro” agli alacri padani! Sembra di sentire storie drammaticamente vicine.

Ebbene, questa è la terribile storia nella quale Simone Cristicchi ha affondato le mani senza riguardi per nessuno salvo che per le vittime: quella povera gente giusta scacciata dalla propria terra e dalla propria memoria. Il Magazzino 18 del titolo è quello nel Porto Vecchio di Trieste dove sono ancora oggi accatastate le masserizie dei profughi: brandelli di vita quotidiana spazzata via e in attesa di un catalogo dei morti. Cristicchi ambienta lì la sua narrazione: è un funzionario romano d’oggi spedito a far l’inventario dei fantasmi, ma poi è anche un fantasma dell’inventario, una voce perduta degli esuli. I due punti di vista si intrecciano e insieme costruiscono l’epica dell’esodo biblico: questo terribile incidente della storia che troppi in Italia, in Europa, a Mosca e nel mondo hanno sempre cercato di nascondere. Lo spettacolo ha qualcosa in comune con la ritualità laica e dolente inventata da Marco Paolini, ma in più ha le canzoni. Mi chiedevo, prima dello spettacolo: come farà a cantare l’esodo istriano, Cristicchi? Non so come, ma l’ha cantato, e mi ci sono emozionato. Segno che ha vinto la sua sfida. Certo, l’ha aiutato Antonio Calenda, che ha messo il suo marchio, la sua firma, in almeno un paio di scene memorabili (quando il narratore-Cristicchi prende in braccio una bambina vittima di un attentato jugoslavo, o quando mette in fila le sedie vuote dei protagonisti dimenticati dell’esodo), ma lui, Cristicchi, ci ha messo la faccia. E il coraggio.

Devo ammettere, infine, che pure mi sono emozionato quando Cristicchi ha letto poche odiose righe pubblicate dal quotidiano l’Unità nel 1947, all’arrivo di quei povericristi istriani scacciati dalla diplomazia cieca e osteggiati dai loro fratelli italiani poiché ritenuti spocchiosi e fascisti, incapaci di mediare con il sol dell’avvenire rappresentato da Tito. Più che emozionato, mi sono vergognato: perché a noi ragazzi comunisti, prima giovani promesse poi giovani dirigenti de l’Unità queste cose le hanno sempre nascoste. E nessuno s’è mai alzato in piedi a chiedere conto, a sbugiardare, a espiare. Mi ricordo solo un brillante collega triestino al quale raccontai di essere stato a mangiare da “Bepi Sciàvo”: ma come ti permetti di chiamarlo così!, mi disse. Però la verità, che pure doveva sapere, non me la raccontò. Ho dovuto scoprirla molto più tardi con dolore. E ho dovuto aspettare Cristicchi per vederla in scena a teatro. Grazie.

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