Luca Fortis
Dopo l'intesa Usa-Iran, parla Nima Baheli

Addio Satana?

La finestra aperta da Khamenei per ritrovare un accordo con il Grande Satana dopo trent'anni ricorda lo “sforzo eroico” dall'imam Hasan, nipote di Maometto, che siglò la pace con il califfo sunnita. Una flessibilità necessaria alla sopravvivenza della repubblica islamica. Che riaccende le speranze e i ricordi degli esuli...

Le scalette che portano all’aereo scorrono, gli occhi si chiudono e per un attimo si è colti dal sapore dello zafferano e del pistacchio, dalla lucentezza delle nevi del monte Damavand. Un mix di felicità, di salvezza e di disperazione scuotono da dentro. I minuti scorrono, i ricordi pure. In testa tornano le parole della nonna che per salutarti, forse per l’ultima volta, ti recita una poesia di Omar Hayyam: «Coloro che furono oceani di perfezione e di scienza/ e per virtù rilucenti divennero Lampade al mondo,/ non fecero un passo fuori di questa notte oscura:/ narrarono fiabe, e poi ricader nel sonno». Una lacrima scende sul viso, un ultimo sguardo alle montagne sopra Teheran e si entra nell’aereo. Un mondo si chiude, uno nuovo si apre. O forse due terre si fondono.

Questo, dico a Nima Baheli, è quello che probabilmente hanno provato migliaia di esuli iraniani lasciando il Paese dopo la rivoluzione khomeinista nel 1979. È tarda serata e chiacchieriamo dell’accordo provvisorio firmato tra Iran e potenze occidentali sul nucleare persiano. Io bevo un buon vino rosso, mentre il mio amico sorseggia un Chai. La notizia è storica perché Stati Uniti e Persia non si sono parlati per oltre trent’anni. La casalinga di Voghera iraniana, aggiungo, sogna la California. La cultura popolare persiana, televisiva e musicale, viene tutta prodotta in Usa o Inghilterra, la cultura elitaria viene fatta anche essa tra Stati Uniti e Europa. Non è paradossale, chiedo, questo interscambio viscerale tra l’Iran e il Grande Satana?

Nima Baheli mi fa notare come tradizionalmente tra le due popolazioni non esistesse alcun odio. Fino al colpo di stato contro Mossadeq gli Stati Uniti erano molto amati in Persia. A essere il nemico, mi dice, «era la Gran Bretagna. Anche a livello governativo, paradossalmente, si guarda molto a Washington perché alla sopravvivenza dell’ideologia alla base della Repubblica Islamica serve un nemico estero. E il Grande Satana, che attrae e svia la popolazione, aveva proprio questo obiettivo».

Concedendo la cittadinanza a moltissimi esuli, gli rispondo, gli Stati Uniti dopo la caduta dello Shah hanno di fatto creato un ponte tra Iran e Usa. Molti iraniani, mi replica, «all’inizio scelsero gli Stati Uniti perché lì avevano molti investimenti e questo potrebbe aver creato un ponte, ma io penso che il legame già fosse forte prima. Si può infatti affermare che la forte occidentalizzazione del paese negli anni Settanta da una parte portò alla rivoluzione islamica, ma dall’altra portò a una forte conoscenza del mondo americano. Questo legame oggi è evidente quando si pensa che appunto buona parte della cultura cinematografica, musicale, e letteraria persiana, sia elitaria che popolare, viene fatta in Occidente e diffusa illegalmente in Iran».

Non è stato facile arrivare a questo accordo, sottolineo. «Quest’intesa ad interim – mi dice – è stata firmata per creare fiducia tra le controparti, perché erano trent’anni che non si parlavano. La svolta è che si siano confrontati ufficialmente dopo tanto tempo. Dal mio punto di vista l’accordo non è così negativo per l’Occidente, sette miliardi di dollari diluiti in sei mesi, è poca roba in confronto a quello che l’Iran guadagnerebbe senza le sanzioni. Inoltre, l’accordo dice che l’Iran non può arricchire l’uranio sopra il cinque per cento. Se Kerry non avesse firmato, da qui a un mese ci sarebbero state nuove sanzioni e la finestra lasciata aperta da Khamenei per trovare l’intesa si sarebbe chiusa».

Rohani, dico, non può di certo aver firmato senza l’assenso della guida suprema. «Per comprendere – mi spiega Nima Baheli – quanto Khamenei faccia sul serio si deve capire fino in fondo il paragone da lui fatto tra le scelte di politica estera iraniana e quelle fatte dall’Imam Hasan secoli addietro. Hasan era figlio di Ali e di Fatima, la figlia di Maometto, e secondo gli sciiti fu il secondo imam successore del profeta. Abbandonò la vita politica siglando un accordo di pace con il califfo sunnita concludendo così la prima stagione di rivendicazioni politiche sciite. La guida suprema gli dedicò un libro in cui lo descrisse come “il più grandioso esempio di eroica flessibilità della storia”. In parole povere la guida suprema suggerisce come la trattativa con una potenza più forte sia uno “sforzo eroico” che è lecito a volte fare».

Quindi, affermo provocatoriamente, bisogna fare l’accordo con il Grande Satana per sopravvivere. «La guida suprema, essendo l’apice del potere – mi risponde – ha interesse che la repubblica islamica sopravviva, non è un dittatore tipico, ascolta i suoi consiglieri e a volte cambia anche opinione. Khamenei ha capito che i Pasdaran e Ahmadinejad rischiavano di distruggere il sistema. Infatti, le loro dichiarazioni incendiare contro Israele e contro l’Occidente avevano allontanato perfino le masse arabe dei Paesi vicini, tradizionalmente anti-israeliane. L’Iran è sempre stato sottoposto a sanzioni, ma le ultime avevano avuto risultati talmente penetranti da aver impoverito molto la popolazione e costretto l’economia iraniana, tradizionalmente legata a quella occidentale, a stringere sempre di più i rapporti con la Cina. Tutto questo ha avuto un costo non minimale, Pechino ha infatti ottenuto clausole capestro che costringono il paese a importare elevati quantitativi di prodotti cinesi, anche perché il petrolio viene pagato in Yuan. In più, a livello regionale, la famosa mezza luna sciita, che va dal Libano all’Afghanistan, è stata toccata da numerose crisi, a cominciare dalla Siria e dall’Iraq, indebolendo così anche l’Iran. La guida suprema aveva inoltre deciso di dare più potere alla seconda generazione rivoluzionaria, ma poi ha capito che questo poteva creare conflitti con la vecchia guardia. Quindi ha deciso di puntare sul nuovo presidente Rohani, che già nel 2003, sotto la presidenza di Khatami, come capo dei negoziatori, aveva fermato l’arricchimento dell’uranio per un certo periodo. Il nuovo presidente iraniano ha un potere trasversale».

Israele e l’Arabia Saudita, gli dico, non l’hanno presa bene. «È nell’interesse di Israele – sostiene Nima Baheli – un riavvicinamento con l’Iran, ma non lo potrà fare un governo populista come quello di Netanyahu. Paradossalmente il premier israeliano e Ahmadinejad finivano per fare l’interesse l’uno dell’altro, perché con l’alibi nemico esterno, compattavano le forze interne. Ora che Netanyahu è orfano di Ahmadinejad, e che si trova di fronte il nuovo presidente Rohani, molto più raffinato e difficile da gestire, si è trovato spaesato. Inoltre, il premier israeliano non ha ottimi rapporti con Obama ed è noto come durante le presidenziali americane abbia finanziato il suo rivale repubblicano. Nel lungo termine però le prospettive sono diverse, siccome si tratta due paesi non arabofoni hanno entrambi interesse a non creare una potenza araba. Infatti, se si guarda agli ultimi trent’anni, a parte le parole, i due paesi si sono sempre più o meno lasciati in pace. La questione è diversa per il governo saudita che teme di essere indebolito da un rafforzamento dell’Iran e dalla maggiore indipendenza energetica americana grazie allo shale gas. Qualora davvero l’accordo sul nucleare porti a un riavvicinamento tra Usa e Iran, questo andrà oltre il nucleare, infatti i due paesi hanno interessi convergenti su molti fronti, per esempio quello afgano. Per rassicurare i sauditi gli Stati Uniti dovrebbe far capire che non li abbandoneranno alla mercé dei persiani».

Parlando e bevendo il tempo scorre e si fa tardi. Saluto Nima Baheli e dopo un po’ vado a dormire. Mi addormento e sogno di essere il nipote della ragazza della metafora che avevo fatto al mio amico parlando degli esuli. Guardo mia nonna che cucina, ha gli occhi commossi, sento che le ho riaperto una ferita. Ha appena saputo che andrò in Iran per le vacanze. È la prima volta che vado nel mio paese d’origine. Sono cresciuto in California immerso nella comunità persiana. Mi sento americano, ma sono anche iraniano. I silenzi di mia nonna, la sua depressione per aver lasciato il suo paese, mi spingono a scoprire quell’altro mondo di cui conosco la cucina, la lingua, la musica. Voglio toccare le mani di quei cugini che sono rimasti dall’altra parte del muro ideologico e che sento per telefono da anni. Una lacrima scorre sul volto di mia nonna, non sa nemmeno lei se di tristezza o se di gioia. Forse è solo malinconia. Mi abbraccia e mi chiede di portarle un pezzo di Sohan, un tipico dolce di Isfahan. Passo in uno stadio più profondo del sonno e i ricordi si annacquano, diventano odori, sensazioni e sapori d’Oriente.

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