Andrea Carraro
Tra teatro e cinema

Polanski in pelliccia

Il grande regista riscrive Leopold von Sacher-Masoch per riassumere tutti temi della sua cinematografia. Dall'ossessione del desiderio alla necessità di sdoppiarsi. «Noi siamo registi delle nostre fantasie»

A circa due anni da Carnage (che a me è parso un grande film ma che invece alcuni critici italiani hanno accolto tiepidamente), trasposizione dell’omonima opera  teatrale di Yasmina Reza, l’ormai ottantenne Roman Polanski torna a fondere cinema e teatro con Venere in pelliccia, presentato con successo di critica al Festival di Cannes 2013. Il film prende spunto dall’omonimo romanzo dello scrittore austriaco Leopold von Sacher-Masoch (il termine “masochismo” deriva da lui), stampato nel 1870. Si tratta di un romanzo erotico, “scandaloso”.

Il narratore va a trovare un suo amico, Severin, e gli parla a lungo di un suo sogno riguardante una donna ravvolta in una pelliccia scura che egli identifica con Venere, dea dell’amore, immagine suggeritagli da un dipinto presente in quella stessa sala di una donna seduta, vestita con solo una pelliccia, che tiene una frusta in mano. Allora Severin gli rende noto il suo incontro con Wanda von Dunajew, giovane, ricca e fascinosa vedova, durante il quale lei gli ha svelato la propria edonistica filosofia di vita orientata a una strenua ricerca del piacere e del godimento. Severin, affascinato, sensualmente rapito, si propone di farle da schiavo per poterla servire da dea quale la donna appare ai suoi occhi. La chiede in sposa, ma lei gli propone un anno di convivenza a scopo di verifica della loro unione.

Severin per convincerla dice di raggiungere l’estasi subendo l’umiliazione e il sacrificio come succede ai martiri e firma un contratto in cui dichiara di rinunciare a tutti i suoi diritti, diventando proprietà di Wanda von Dunajew che ne può così disporre a suo piacimento senza limiti, libera perfino di ucciderlo se lo desidera. L’uomo, che la donna ora chiama Gregor, viene sottoposto a ripetute punizioni corporali che subisce pur di restarle accanto. La loro relazione finisce quando Wanda si invaghisce del ruvido ufficiale greco Alexis Papadopolis, il quale arriva anch’egli a frustare Severin sotto lo sguardo complice ed eccitato della donna. «Chiunque permetta a lui stesso di essere frustato, merita di essere frustato» – dice Severin. C’è molto di autobiografico in questa storia: lo scrittore pare che fosse profondamente attratto dalla dominazione, dalla frusta e dalle pellicce. Il libro a sua volta ha ispirato una pièce dell’americano David Ives (sceneggiatore con lo stesso Polanski).

Ed eccoci finalmente al film, che, come il romanzo, si apre con l’epigrafe: «E l’Onnipotente lo colpì, e lo consegnò nelle mani di una donna», un motto che dà l’abbrivio a un sadico e perverso gioco di potere fra i sessi (e fra le figure del regista e dell’attore) in cui la donna fa la padrona e l’uomo il servo. Polanski sembra aver sposato in questa sua ultima parte della carriera l’idea di un “cinema da camera” in bilico fra commedia sarcastica e dramma esistenziale, con pochi o pochissimi attori in scena. In Carnage erano quattro, qui soltanto due: l’attore francese Mathieu Amalric, che impersona Severin, mentre Vanda è impersonata dalla 47enne  Emmanuelle Seigner, moglie del regista, ancora assai bella e seducente. Entrambi sono bravissimi.

Venere in pelliccia appare una summa del cinema del grande regista polacco, dove confluiscono tutti o quasi i suoi temi e i suoi modelli espressivi ma come prosciugati da qualunque orpello o accessorio: lo sdoppiamento sessuale e il travestimento (L’inquilino del terzo piano, Cul de Sac ecc.), il rapporto vittima-carnefice (La morte e la fanciulla), il tradimento e il gioco della seduzione portato ai suoi estremi limiti caricandosi di sadismo e perversione (Il coltello nell’acqua, ancora Cul de Sac, Luna di fiele ecc.), la derivazione e l’impianto teatrali (Carnage), il rapporto finzione-realtà, l’humour anche feroce e certe tinte da horror psicologico (Repulsion, Per favore non mordermi sul collo, Rosemary baby)…

Uno dei due protagonisti è Thomas, un regista e autore teatrale che sta allestendo una pièce dal suddetto romanzo Venere in pelliccia di Leopold Von Sacher-Masoch (lo stesso che ha ispirato Lou Reed per il suo capolavoro Venus in Furs citato nel film). Arriva in teatro in grave ritardo, che le prove sono finite da un pezzo, Vanda: un’attricetta non più giovane, volgare e sciocca, che pare affatto inadatta al ruolo della perversa e algida protagonista se non per la curiosa coincidenza del nome. La donna, dopo molti tentativi a vuoto, riesce a convincerlo all’audizione. Un pugno di battute e il regista (somigliante a Polanski giovane in modo impressionante) si rende conto che lei è assolutamente perfetta per quella parte, che dimostra di conoscere perfettamente dall’inizio alla fine e di saperne a tratti perfino più di lui riguardo alla messinscena e al significato più profondo di certi passaggi. Fra l’altro la donna, fascinosa e sensuale quanto mai ora che indossa gli abiti di scena, sembra conoscere perfettamente anche la macchina teatrale e gestisce con perizia l’illuminazione del palco (splendidi la fotografia e gli effetti scenografici). Lui ha indossato i panni del protagonista maschile della pièce (Severin) e la prova va avanti per tutta la durata del film con i due che entrano a fondo nelle rispettive parti, ma talvolta la verità della loro vita e quella della scena si intersecano e si confondono.

Il gioco di seduzione sadomasochista già presente nel testo si amplifica, portando a galla le reali e segrete pulsioni del regista che alla fine, da lei sollecitato e quasi costretto, comincia a indossare i panni femminili di Vanda, mentre la donna prende quelli maschili di Severin, ma senza capovolgere il teorema servo-padrone. Lui, abbigliato e truccato da donna (come ne L’inquilino del terzo piano), viene legato attorno a un finto tronco d’albero della scenografia, imbavagliato, frustato, umiliato. Il temporale che si vedeva annunciato all’inizio scoppia fra tuoni e fulmini che rimbombano nella sala. Lei se ne va lasciandolo solo nel buio a lamentarsi e a cercare invano di divincolarsi. La cinepresa attraversa tutta la sala buia e esce sulla strada fino a inquadrare il teatro e la via, così come a inizio film era passata dall’esterno di un viale alberato alla facciata del teatro, per poi idealmente attraversarlo e entrare nella platea fiocamente illuminata. «Nel sadomasochismo – ha dichiarato recentemente il regista in un’intervista –c’è qualcosa di non molto diverso dal teatro: diventi regista delle tue fantasie, interpreti un ruolo, diventi un’altra persona… Il film gioca con questa teatralità, un lavoro teatrale all’interno di un lavoro teatrale: dove dominazione e sottomissione, teatro e vita reale, personaggi, realtà e fantasia si incontrano, si scambiano di posto e confondono le linee di confine…».

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