Alessandro Boschi
Il nostro inviato a Roma

Marcio in Danimarca

Presentato “Sorrow and Joy” del danese Nils Malmros, un film difficile, con qualche incertezza, ma che affronta un tema delicatissimo: quello dello slittamento dall'amore alla follia

Il passeggino con la piccola Maria che il padre (Jacob Cedergren) e la nonna si palleggiano come se nessuno dei due volesse prendersene cura  è l’immagine che meglio esemplifica Sorrow and Joy, film in concorso al Festival Internazionale del film di Roma diretto dal danese Nils Malmros. Il quale sostiene che la sua opera sia il racconto di come si raggiunga l’amore maturo e realmente reciproco attraverso la gioia e il dolore. Viene allora da pensare che il fine sia stato sopravanzato dal mezzo.

L’uccisione della bambina di pochi mesi da parte della madre (Helle Fagralid) non può non essere il nucleo della storia. Vuoi per l’atrocità emotiva che viene inflitta allo spettatore vuoi per le riflessioni che il regista stesso ci propone. La madre è infatti afflitta da sindrome bipolare, anche se il marito, nel momento in cui gli viene chiesto un giudizio sul suo rapporto matrimoniale lo definisce ambivalente, almeno questa è stata la traduzione dal danese. I due appartengono a due mondi totalmente diversi. Egli (ancorché danese) è un regista bergmaniano, con tutto quello che ne consegue. Ella è invece la rappresentante della borghesia più modesta, con lampadari ricamati all’uncinetto e carta da parati color segatura. L’impatto tra i due è devastante, soprattutto per lei, che da anni si cura con il litio, proprio in virtù della sua bipolarità. Il narcisismo del marito invece non è nemmeno socialmente percepito, in quanto non rappresenta un disturbo per gli altri. Anche se la moglie stessa, Signe, è molto ben voluta nella scuola dove lavora, al punto che, nonostante l’uccisione della piccola, colleghi e alunni la rivorrebbero con loro.

Il regista, pur con i suoi tempi scandinavi, dimostra di avere chiara la situazione: i malati sono due, eventualmente. Quando il padre va a vedere la salma della piccola e con le dita le dà un colpetto sui denti come faceva quando era ancora viva, non fa che compiere un gesto per compiacere la propria affabilità, tanto è vero che, poi, lo rifarà con la giovane protagonista del suo film in un momento di intimità («il regista, afferma, deve flirtare con le sue attrici»).

Il discrimine della storia, e della malattia, è nel momento in cui viene presa la decisione di sospendere la somministrazione del farmaco, decisione suggerita da lui e da lei non subita ma comunque accettata come una liberazione. Come se fosse della sporcizia da nascondere sotto al tappeto (ancora Bergman…). Resta sempre difficile percepire la malattia mentale come tale, equiparabile ad un’ulcera o ad un altro disturbo visibile, magari, con delle radiografie. Il film si sviluppa su questi due binari paralleli. Il marito che non sa rinunciare alla sua attività di regista e che in maniera molto infantile accetta e solletica il proprio narcisismo senza rendersi conto della progressiva spersonalizzazione della moglie. Che si ritrova a vivere, sebbene per sua scelta, in una casa che non è sua e in un ambiente che la fagocita giorno dopo giorno: «Dove sono le tracce della mia vita?», grida esasperata Signe. Progressivamente si assiste all’avvicinarsi della tragedia che avviene, è necessario dirlo, durante l’estate del 1984.

Forse con questa collocazione il regista ha voluto sottolineare che da allora ci si è molto evoluti nel trattamento e nella percezione della malattia mentale. Se così fosse ci troveremmo ad essere in totale disaccordo e credo che chiunque desse un’occhiata alla cronaca di questi giorni non possa che convenirne. Parte fondamentale negli eventi hanno anche le rispettive famiglie, anche se l’attenzione è diretta maggiormente verso quella di Signe, il cui zio si è suicidato e la cui madre avrebbe dovuto sorvegliarla con maggiore attenzione.

In conclusione Sorrow and Joy è un film cui non possiamo perdonare alcune indecisioni di percorso, ma che indubbiamente affronta un argomento, più argomenti in realtà, non più eludibili. Come già aveva suggerito Alina Marazzi con il suo Tutto parla di te, un film la cui importanza non è stata forse a sufficienza sottolineata.

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