Andrea Carraro
A proposito del "Conte libertino"

L’incubo Italia

Moralismo e moralità sono due termini che oggi spesso vengono confusi: su questa "confusione" Renzo Paris ha costruito un romanzo spassoso e cattivo. Che mescola passato e presente per raccontare la "Finis Italiae"

Allora, ho appena finito di leggere Il conte libertino (Gaffi), nuovo romanzo dello scrittore-poeta Renzo Paris, e dico subito che è stata una lettura divertente e assai nutriente che consiglio a tutti senza riserve. Fra l’altro mi è capitato di assistere a un paio di presentazioni di questo volume a Roma, in due luoghi emblematici: il bar Trombetta alla stazione Termini (il romanzo si svolge perlopiù sul treno, nella tratta Roma-Salerno e nelle rispettive stazioni) e in un teatro nel cuore di San Lorenzo (trasformato ora in centro sociale-culturale), il quartiere dove ha sempre vissuto lo scrittore. Due presentazioni non molto affollate, e tuttavia dense (con relatori di prim’ordine: La Porta, Di Consoli, Raimo) nelle quali sono venute fuori tante questioni di enorme interesse non solo per comprendere la letteratura dello scrittore ma anche e soprattutto la nostra storia (non solo letteraria) degli ultimi quarant’anni, pure attraverso gustosi aneddoti di prima mano raccontati dai relatori o dal pubblico di amici e sodali presenti.

renzo parisIl romanzo di Paris, perfettamente in linea con la sua quarantennale produzione, è tante cose insieme: un divertissement colto, un romanzo comico-visionario, un’autofiction calata negli anni 70-primi 80 con inserti storico-saggistici sulla Francia del Seicento, una biografia letteraria, un’indiavolata e impudica avventura sessuale e libertina, un ritratto generazionale ecc. La storia – narrata in terza persona – è semplice e riferisce di un paio di giornate di un professore universitario di Storia e Letteratura, Ruggero Rubanti (alter ego fin troppo evidente dell’autore) all’incirca quarantenne in quei primi anni 80 (nella bandella significativamente definiti della “finis Italiae”) compresi i suoi spostamenti fra Roma e Salerno dove egli insegna all’università. Il romanzo è fitto di incontri del professore con altri accademici e letterati dell’epoca, molti dei quali riconoscibilissimi: da Marramao a Franco Moretti (fratello di Nanni), da Sanguineti (chiamato Sanguinaccio, “il più brutto poeta d’Italia”) a Siciliano ecc.  Il romanzo rappresenta anche le “visioni” del professore, a occhi chiusi ma anche aperti, di un conte libertino del Seicento, Roger de Bussy-Rabutin, sul quale Rubanti sta compiendo studi con l’intenzione di scriverci un libro contravvenendo alla damnatio memoriae su di lui voluta dal Re Sole per aver rivelato, nella sua Storia amorosa delle Gallie, le avventure di letto del monarca.

Il racconto è spesso spezzato dai dialoghi (piccantissimi, colti, spassosi) fra il conte, spesso a cavallo, e il professore, entrambi sempre assai indaffarati sessualmente, l’uno fra le dame e le servette della corte di Luigi XIV, l’altro con le studentesse universitarie sue o di altri professori. I due si accusano vicendevolmente di amoralità, impudicizia, pedofilia, mentre la penna dell’autore va a narrare, davvero senza la minima pruderie, le loro scorribande sessuali che spesso sconfinano in un erotismo osceno che mai scade però nella volgarità, grazie alla sapiente scrittura dell’autore.

Paris scrive molto bene, mescolando al parlato (vivace, moderno, dotato di ritmo) un discorso libero indiretto capace di assorbire anche voci dotte e gergali. Non è facile trovare in Italia scrittori dotati di una prosa di tale livello che si caratterizza non soltanto nelle magistrali descrizioni di approcci e amplessi, ma anche in certe pennellate sul degrado urbano, sul paesaggio arido della campagna laziale osservata dai finestrini del treno, in alcuni ritratti di personaggi presi dal vero o inventati (accademici, camorristi, borgatari, politici, affaristi, traffichini, registi, scrittori, artisti, pusher ecc.), in certe visioni oniriche dell’infanzia contadina marsicana, dechirichiane o goyesche, in certi inserti saggistici. Il professore farà una brutta fine, punito da una masnada di malavitosi sul treno, per qualche sua improvvida avventura sessuale, o per aver rifiutato una lode alla figlia di un boss, o per non essersi piegato alla corruzione imperante in un concorso universitario o forse per tutti questi motivi insieme e chissà se, in quella “esecuzione”, non ci sia anche lo zampino ultramondano del Conte.

Raimo diceva di aver apprezzato il romanzo, e in generale tutta l’opera narrativa di Paris, per gli stessi motivi per i quali la sentiva lontana negli anni del suo apprendistato letterario, ovvero per il suo dichiarato “disimpegno”, o meglio per quel suo essere sempre ai margini dell’impegno politico e sociale… Con qualche analogia Filippo La Porta ha osservato che «Paris ci racconta con stile arioso da conte philosophique l’incontro tra due fantasmi, Rubanti e Rabutin. Ma uno dei due è un fantasma in carne ed ossa, e perciò  più  consapevole e anche più straziante. Di fronte alla loro irrealtà resta l’unica “realtà” della scrittura». Io invece penso che al fondo di questo apparentemente svagato e colto disimpegno ci sia un precipitato morale e finanche moralistico: lo sguardo di Paris sugli uomini (tutti, senza distinzione di classe o di cultura) e sulle loro istituzioni (famiglia, coppia, università, stato…) può essere divertito, perfino comico, ma non manca di severità e disincanto. Nessuno si salva, nell’universo di Paris, e purtroppo la sua Finis Italiae somiglia tantissimo a quella di oggi, quasi come se questo quarantennio fosse passato invano.

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