Flavia Gasperetti
Un'indagine di Elena Marisol Brandolini

Licenziamento killer

È un focus-group quello realizzato dall'autrice che in “Morire di non lavoro” indaga gli effetti della disoccupazione sulla salute mentale in Italia e in Spagna. Essere espulsi dal processo produttivo e quindi sociale induce al suicidio. Solo l'associazionismo solidale riesce a mitigare la solitudine dei disoccupati

Ve lo ricordate voi l’Ufficio di Collocamento? Io lo vidi solo un paio di volte quando a diciotto anni feci le pratiche per ottenere il libretto di lavoro. Ci passai di sfuggita ma negli anni ne ho conservato un distratto ricordo, mi ero fatta una certa idea. Per esempio, mi ero fatta l’idea che alle brutte, ma proprio alle male parate, l’Ufficio di Collocamento si occupava di “collocarti”, per dire. Avanti veloce di qualche lustro, scopro che l’Ufficio di Collocamento si chiama adesso Centro per l’Impiego, ma questo è solo uno dei piccoli e grandi cambiamenti intervenuti in mia assenza. Per esempio, ora c’è il Patto di Servizio, che da quel che ho capito implica che il Cpi debba metterti a disposizione formazione, orientamento al lavoro, aiuto nella stesura del Cv, preparazione a sostenere i colloqui, ma in definitiva il lavoro te lo devi trovare da solo.

Non è tanto questo ad avermi turbato, però, qualche settimana fa quando per registrarmi ho sostenuto l’obbligatorio colloquio di orientamento con un operatore del centro, quanto le prime parole di avvertimento pronunciate dal suddetto operatore: «Considera che il 99% delle persone trova lavoro attraverso il proprio personale network di conoscenze e relazioni». Ma anche: «Considera che su 100 curriculum inviati, sei fortunato a ottenere UN colloquio». C’è voluta tutta, per trattenermi dal chiedere «E allora qua che ci si viene a fare?».

Nelle settimane successive questo interrogativo inespresso ha continuato a pungolarmi. Non vi pare un meraviglioso arcano che gli enti pubblici spendano risorse per formare e assumere mediante concorso un certo numero di disoccupati allo scopo di metterli in un ufficio a dire a tutti gli altri disoccupati che il loro ufficio non serve a niente? Non vi pare un paradosso squisito?

Ho divagato ma fino a un certo punto. Ho divagato perché anche io faccio parte delle schiere di “precari della cultura” la cui condizione di freelancer assomiglia così tanto a una forma sancita di disoccupazione a corrente alternata che la parola stessa, freelancer, pare essere diventata un nuovo eufemismo garbato per dire “morto di fame”. Quindi, diciamo che ho divagato perché fosse chiaro da subito il mio stato d’animo quando ho deciso di leggere una recente e interessante pubblicazione, Morire di non lavoro (Ediesse Ed., 152 pagine, 10 euro), una ricerca sulla disoccupazione in tempi di Austerity, condotta dalla giornalista Elena Marisol Brandolini.

Questo studio attinge a una varietà di repertori statistici e a due parallele indagini realizzate dall’autrice secondo il modello del focus-group, in Italia e in Spagna; vi si indaga la correlazione tra disoccupazione e aumento del tasso di suicidi ma, soprattutto, si interpella efficacemente il fenomeno della disoccupazione nei suoi effetti sulla salute mentale, e quindi come problema sociale-epidemiologico, verrebbe da dire.

Brandolini non cita nel suo studio un popolare e discusso saggio del 2009 degli studiosi britannici Richard Wilkinson e Kate Pickett – per l’appunto, due epidemiologi – The Spirit Level (ed. italiana: La Misura dell’Anima, Feltrinelli, 2009), ma mio avviso Morire di non lavoro ne costituisce un naturale approfondimento e ne rafforza ulteriormente le conclusioni: la disuguaglianza economica, scrivevano Wilkinson e Pickett, è causa dei principali problemi sanitari e sociali che affliggono le società a capitalismo avanzato, che si tratti di crimine, alcolismo, obesità, disturbi psichici, persino la mortalità infantile. I contesti esaminati da Brandolini non fanno che confermare questa analisi: Italia e Spagna, entrambe attualmente sottoposte alla cura da cavallo dell’Austerity made in Bruxelles hanno visto aumentare in modo significativo la concentrazione interna dei patrimoni, le diseguaglianze, e ovviamente la disoccupazione. Con esiti prevedibili, verrebbe da dire a chi ha letto The Spirit Level.

Morire di non lavoro si colloca quindi in quell’ambito nutrito di studi che considerano le politiche di Austerity una ricetta per il disastro, recessive in se stesse, e va ad alimentare un dibattito virtualmente infinito. Ma c’è un aspetto ulteriore che rende l’analisi di Brandolini meritevole, ed è la sensibilità con cui approfondisce il tema della solitudine individuale, il senso di fallimento personale che pesa sui disoccupati di oggi. La Crisi nella percezione soggettiva è il sottotitolo di questo volume, che non perde mai di vista l’impatto del non lavoro su singoli e famiglie. Mai come ora l’esclusione dal mercato del lavoro è stata condizione più alienante e solitaria, venute meno tutte le forme di ammortizzazione e sostegno, la nozione stessa di “diritto al lavoro” e, in molti casi, anche la concreta speranza che la propria disoccupazione sia una condizione transitoria, da cui si può uscire.

La solitudine, la si consideri nelle sue forme più estreme, quella di chi rimane solo a fronteggiare debiti, pignoramenti, insolvenza, o in quelle dell’ordinaria sommessa disperazione di chi si danna nel cercare un impiego e di chi rinuncia persino a cercarlo, la solitudine di chi è espulso dal mercato del lavoro deve farci paura. Come argomenta Brandolini: «Quando la povertà materiale s’impone, è la dignità personale a essere messa in questione. Si parla di espulsione dal processo produttivo, infatti, non solo per rappresentare la violenza e il trauma che comporta l’evento del licenziamento, ma per il rischio che vi è nella sua possibile coincidenza con l’esclusione sociale».

È nel cercare risposte a questa solitudine che la metodologia impiegata da Brandolini, quella del focus-group e quindi della messa a comparazione di due diversi contesti, offre notevoli spunti di riflessione. Essa permette di cogliere bene come, laddove si crei una rete di mutuo sostegno, la solitudine degli esclusi trovi un orizzonte e un principio di contenimento. È il caso della Catalogna, dove «la fiducia riposta nelle iniziative di lotta e la diffusione sul territorio dell’associazionismo solidale sembrano, almeno in parte, costituire un possibile deterrente per non incorrere nella reazione estrema che coincide con la scelta del suicidio». Mi sembra, questa, una riflessione importante. Un buon punto da cui ripartire.

Facebooktwitterlinkedin