Valentina Mezzacappa
Una scrittrice e un pittore

La Venere di Churchill

Prendete “The House of Mirth" di Edith Wharton, mettetelo accanto alla “Venere con Cupido” di Ridolfo del Ghirlandaio e, nello strano rapporto tra estasi e dolore (tipica dell'America primo Novecento) troverete una inedita sintonia

Edith Wharton è senza dubbio uno degli autori più importanti nella storia della letteratura americana. E ciò che è stata in grado di cogliere con precisione più che fotografica di quel mondo e quella società della quale ella stessa aveva fatto parte e conosciuto così bene, ha fatto sì che per riflesso i suoi romanzi raccontassero non solo la sua America ma anche l’Europa, le vieux continent, meta ambita e rito di passaggio in un tempo che ancora non conosceva viaggi e informazioni fruibili con la velocità di un fast food.

Edith Wharton ha descritto con straordinaria lucidità e dovizia di particolari il crudele mondo dell’alta società americana, quella di banchieri e collezionisti d’arte, di mogli impeccabili e ambigue (la buona May Welland non sapeva o fingeva di non sapere?), di anziane zie in grado di incombere se non addirittura plasmare il destino di nipoti e protette in virtù dei loro ingenti patrimoni. È riuscita a rendere reale il velluto morbido che ricopre i divani di quei salotti nei quali, quasi fossero i Cabinet War Rooms di Winston Churchill, i suoi personaggi segnano nel bene o nel male la propria vita o quella degli altri attori della storia. E, allo stesso modo, ha reso udibile il brusio proveniente dai palchi dell’opera prima che le luci si spengano e l’orchestra inizi a suonare o il leggero fruscio delle gonne dai lunghi drappeggi di seta mentre sfiorano la monumentale mobilia tardo ottocento. Ma soprattutto ha rivelato la presenza di quei pulviscoli di polvere visibili solo in controluce delle imponenti dimore sigillate da pesanti tendaggi e piccole giungle di felci. Ha richiamato l’attenzione dell’occhio distratto da regali scenografie verso la verità e la semplicità delle umane importanze.

edith whartonIl fulcro della sua letteratura è il puritanesimo del nuovo mondo, immaginabile come un enorme albero, maestoso come una quercia centenaria, dal cui tronco si dipanano mille rami e da questi rami altri ancora più piccoli e sottili. Questa quercia è l’insieme complesso, spietato, crudele, a tratti così razionale da risultare l’esatto opposto delle regole e dei codici che governano il mondo messo in scena dall’autrice. Un mondo per il quale basta passeggiare al fianco della persona sbagliata per perdere tutto o sorridere a quella giusta per guadagnare tutto. C’è quasi da chiedersi se la spietatezza che sarà il marchio di fabbrica del financial district e di tutte le sue attività non abbia per caso ereditato la propria identità da quella vecchia e patrizia New York. Come si deduce da The Age of Innocence, la vecchia Europa, culla natale del fervente puritanesimo Cromwelliano, del carnale cattolicesimo e dell’inguaribile perseveranza calvinista, appare più paradossalmente libera nei costumi, come dimostra l’accettazione del divorzio di Ellen Olenska.

Il romanzo di Edith Wharton che (a mio avviso) rappresenta meglio di ogni altro questo insieme di ideali e codici è probabilmente The House of Mirth del 1905. L’ambientazione è sempre quella dell’alta società newyorchese, la protagonista è una giovane donna di buona famiglia di nome Lili Bart. Vale la pena qui di compiere una piccola digressione cinematografica. L’adattamento di Terence Davies (2000) è molto interessante sebbene egli abbia messo in piedi un cast piuttosto curioso (Dan Aykroyd, Eric Stoltz, Anthony LaPaglia, Laura Linney). Il film coglie con eleganza le atmosfere della Wharton e, bisogna dirlo, Gillian Anderson (sì, quella che andava in giro a caccia di alieni nel celebre serial X-Files, ma non ha fatto solo quello) interpreta una splendida Lili Bart anche grazie a un volto fisionomicamente adatto a rappresentare il periodo che Davies decide di raccontare. Lili, cresciuta nell’agio e educata dalla madre all’amore per la ricchezza, si ritrova all’età di diciotto anni orfana, con grosse disfunzioni affettive e un patrimonio dilapidato da un padre di poco polso. Le sue uniche risorse, la sua bellezza e la sua eleganza, potrebbero aprire tutte le porte giuste ma sfortunatamente per lei una poco propizia concatenazione di eventi sommata alla sua superficialità e alla sua ingenuità segnerà per sempre e drammaticamente la sua esistenza.

La storia di Lili illustra alla perfezione i meccanismi dei quali si è finora parlato. La discesa di Lili inizia con un matrimonio mancato per colpa della stessa protagonista, si fa più ripida quando ella contrae dei debiti di gioco e chiede aiuto a Charles Augustus Trenor, il marito di un’amica, che invece di aiutarla a risanare il debito in realtà la vorrebbe come concubina. Quest’ultima situazione fa si che la sua figura sia avvolta nell’ambiguità e diventi il soggetto di calunnie e pettegolezzi che contribuiranno a rendere ancora più difficile il suo rapporto con il vecchio amico Selden. Tra i due si avverte una sorta di tensione amorosa ma l’incastro non funziona. L’amore per tutto ciò che è materiale di lei mal si accompagna all’etica del giovane. La discesa diventa infine vorticosa caduta quando Lili viene mandata dalla zia in crociera con l’amica e segretamente adultera Bertha Dorset che all’oscuro dell’anziana parente userà la ragazza per distogliere l’attenzione del marito dalle sue avventure extraconiugali. Prossima allo scandalo la signora Dorset non mostrerà alcun rimorso e dopo avere addossato tutta la colpa su Lili le intimerà di lasciare lo yacht.

Lili muore sola e a trenta anni dopo avere cercato senza successo di guadagnarsi da vivere con lavori onesti ma pur sempre inconcepibili per una donna della sua estrazione. Selden arriva in ritardo e, in quella stanza spoglia e povera dove giace il cadavere della giovane donna, capisce che forse avrebbe potuto con il suo amore aiutarla a superare quelli che per lui erano dei limiti, delle mancanze morali.

A un tratto della storia il narratore dirà della protagonista che “… she was so evidently the victim of the civilization which had produced her, that the links of her bracelet seemed like manacles chaining her to her fate.” In questa breve ma acuta osservazione la Wharton non solo spalanca la porta dietro alla quale si cela il mondo di Lili Bart, ma coglie lo spirito di un’epoca e la condizione sociale femminile di quell’epoca con disarmante lucidità. Edith Wharton ha scritto dei romanzi che con l’avvicendarsi degli anni sono diventati sempre più solidi e non solo per merito dell’importanza storica – sono davvero illuminanti per quel che concerne la storia degli usi e dei costumi- ma anche perché come capita solo ai fuoriclasse ha scritto con il terzo occhio ben aperto e vigile, liberando così i suoi oeuvres dalla tirannia del tempo.

È il 1565 quando Michele di Ridolfo del Ghirlandaio, figlio di Domenico, dipinge la sua Venere con Cupido. Il dipinto è una copia dell’olio su tavola del Pontormo risalente al 1533 e basato su un disegno di Michelangelo Buonarroti. Il dipinto vede la Venere sdraiata su un fianco con Cupido appena adagiato sui suoi morbidi fianchi grazie all’aiuto delle sue straordinariamente realistiche ali. Il piccolo dio alato dell’amore regge la sua magica freccia nella mano destra mentre con quella sinistra, facendo passare il suo piccolo e tornito braccio sotto il mento di Venere, sembra delicatamente guidarla perché si volga verso di lui per essere baciata. Venere ha gli occhi languidamente socchiusi, suo è il languore di chi avverte già il fremito di un bacio annunciato ancor prima che questo avvenga. A sua volta Cupido è ritratto in tutta la sua esuberante malizia. Il linguaggio del corpo riecheggia nelle linee da esso tracciate il languore e il torpore sensuale di Venere ma il suo occhio racconta una storia ben diversa essendo questo rivolto verso il seno nudo della dea. Nel suo sguardo vi è una malizia giocosa, degna della canzone che Baldassarre canta in Much Ado About Nothing: «sigh no more, ladies, sigh no more, men were deceivers ever… »

I due quadri condividono lo stesso destino, quello della censura. Il primo intervento avviene durante il periodo di Alessandro de Medici e la seconda profanazione nel 1840. In entrambi i casi con interventi pittorici si agisce perché la Venere originariamente nuda appaia più casta. La storia della censura e del restauro dell’opera del Pontormo è alquanto singolare e curiosa. La censura avviene durante il periodo di Alessandro de Medici (siamo nella seconda metà del cinquecento) mentre il restauro e il ritorno alla nudità originaria in pieno ottocento. L’opera viene attribuita nel 1850 e restaurata da Ulisse Forni due anni più tardi. Nel caso invece dell’opera attribuita al Ghirlandaio, la censura viene effettuata nel 1840 e il restauro avviene solo nel 2001. Se nel primo caso vengono aggiunti solo dei panneggi volti a nascondere le grazie della Venere, nel caso del Ghirlandaio si potrebbe ironicamente parlare di vero e proprio estro sartoriale. Alla dea viene aggiunto non solo un drappeggio strategico la cui funzione è quella di coprirle interamente una coscia ma anche quello che sembra essere quasi un abito dalla stoffa a righe e la vita alta in pieno stile impero. L’abito nasconde i piccoli seni e anche la zona dei genitali già parzialmente occultata nella versione originale del quadro dal piccolo piede del dio alato.

Per raccontare la Wharton e The House of Mirth si sarebbe potuto anche optare per artisti quali George Frederick Watts, George Hamilton Barrable, Edouard Manet, Winslow Homer e molti, molti altri ma quell’esasperante paradosso che nutre l’uomo dall’alba dei tempi è di gran lunga più allettante. Quale modo migliore allora se non quello di svelare la convivenza di quell’eterno desiderio per tutto ciò che è dionisiaco con l’altrettanto immortale bisogno di apollinei perbenismi se non attraverso le ottuse profanazioni che l’arte ha dovuto subire nel corso dei secoli?

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