Ilaria Palomba
Nuova narrativa italiana

Tra errori e orrori

"Il male" di Massimiliano Santarossa è un catalogo (filosofico) degli orrori di oggi: abusi sessuali, clochard, disoccupazione. Un pugno nello stomaco, ma in questo risiede la sua bellezza

Di fronte a Il male di Massimiliano Santarossa, edito da Hacca, è necessario operare un’epoché, una sospensione di giudizio. Se ci si lasciasse guidare dalle tradizionali categorie della narrativa si direbbe innanzitutto che questa non è un’opera di narrativa, avvicinandosi più che altro, per stile e linguaggio, al concetto di poema. Ma qui c’è qualcosa in più rispetto a un classico poema, c’è una storia. La voce narrante è quella di Lucifero, il diavolo in persona, colui che per primo operò il dubbio, non il male, il libero arbitrio, la libertà che coincide con una deviazione dall’ordine, con una scelta. L’uomo è sartreianamente condannato alla scelta e alla libertà. Qui si esplorano i risultati che tale libertà ha prodotto.

Santarossa compie un atto di coraggio non solo ontologico ma anche stilistico, un periodare paratattico e sincopato si fonde con un sapiente utilizzo metaforico. La lingua qui utilizzata mi ha ricordato quella del Nietzsche dello Zarathustra: è oracolare, enfatica, apocalittica. La vita umana odierna è vista come indifferenza dell’uno all’altro. «Ho perso la verginità agli elementi e ho acquisito un nuovo potere, simile a quello dei morti in vita: l’indifferenza». È un romanzo morale quello di Santarossa, descrive la vera vita dei tanti inferni metropolitani che abitiamo, di fronte ai quali persino il diavolo in persona prova sconcerto, orrore e smarrimento. Dall’abuso sessuale incestuoso alla tossicodipendenza (i tossici definiti semivivi), dal lavoro seriale in fabbrica al cinismo del licenziamento, dall’errare di migranti e clochard per treni e città al lavoro minorile in fabbrica, dall’olocausto animale nei mattatoi alla rassegnata solitudine degli anziani negli ospizi, visti come esseri di cartapesta.
Il libro si apre con una dedica: «A chi prosegue il cammino, nonostante viva sotto un cielo che crolla». Si chiude invece con un fortissimo giudizio morale: «Questa apocalisse minima. Questa apocalisse ultima. Questa apocalisse umana».

Cosa c’è dopo il postmoderno? Il postumano, nella sua accezione negativa, il transumano, nella sua accezione positiva e aperta ai possibili. Qui si entra nelle viscere del male, inteso nella sua più estesa negatività. È davvero di uomini non più uomini che parla questo libro. La città è vista come un enorme animale, un corpo gigante che fagocita altri corpi, li ingloba, li deglutisce e li vomita. Leggendo poi la sua biografia scopro che per lunghi anni l’autore stesso ha lavorato in fabbrica e difatti i capitoli sulle catene di montaggio sono a mio avviso i più intensi, qui si percepisce, più che altrove, una sofferenza reale e vissuta. La fabbrica come edificio viene definita balena di cemento, fa pensare al Conrad di Cuore di Tenebra e alla sua potente descrizione del fiume come serpente. Anche la fabbrica-balena di Santarossa vive e ha corpo, fauci, stomaco. Fabbriche che divorano corpi, producono paura e licenziamento. Il licenziamento è cinico, siamo nel dominio della tecnica e del denaro che deve produrre altro denaro, infischiandosene delle singole vite degli uomini. Dal licenziamento si salvano solo i capi reparto e i più disperati. Come se per poter essere degni di essere salvati, di essere visti o anche solo di restare in vita, fosse necessario dimostrare l’assolutezza della propria disgrazia, suscitando pena. È un po’ quello che vediamo oggi non solo nei luoghi di lavoro ma anche e soprattutto nei luoghi dello spettacolo, penso ai tanti talent show che spuntano come funghi, che reggono l’audience sulla spettacolarizzazione (a volte anche invenzione di sana pianta) delle altrui disgrazie. Il diavolo di Santarossa attraversa i vissuti della disperazione, li evoca, li racconta.

L’angelo Lucifero a tratti ricorda l’angelo del capolavoro di Wenders Il cielo sopra Berlino. Tutta l’esistenza umana qui descritta sembra essere un fuggire da qualcosa in cerca di qualcos’altro, di una salvezza che mai avverrà. «Più s’inabissa il cielo sulla terra più mio padre si innalza nel nulla che diviene vuoto siderale, nel tempo privo di tempo». Una visione heideggeriana, questa, che sembra rimarcare il concetto di nichilismo inautentico. Tutta la storia dell’uomo per Heidegger è storia della metafisica e tutta la storia della metafisica è storia di nichilismo in quanto negazione della menzogna fondamentale sull’essere. E la menzogna consiste nell’illusione umana di appropriarsi dell’alterità (intesa come mondo, natura e altri esseri senzienti).

«Rovescialo, padre, il calice. E sommergi tutto. E dona loro la pace nella distruzione». Questa presa di posizione estrema, entropica, senza ritorno, è però anche un monito: ogni distruzione chiama a sé una ricreazione. È un raccontare palingenetico. Palingenesi sta proprio per antico e nuovo, nuova rinascita, nuovo che viene dall’antico, così il postmoderno e il post-postmoderno, l’avanguardia, che vive, esiste e va riconosciuta in quanto tale, si muove e parla di sé, del suo essere altro rispetto a ciò che viene insegnato, rispetto alla correttezza formale, una verità altra, intima, emozionale, tutta legata al corpo e ai corpi. Rimette in discussione i concetti di male e bene, li reinterpreta, laddove il male non è un male assoluto ed è sicuramente molto meno pericoloso del bene assoluto, il Padre, che in ogni caso l’ha creato e concepito.

Questo Lucifero è un’anima capace di entrare nei corpi ed è proprio questo il suo viaggio nelle vite umane. È un viaggio dantesco negli inferi contemporanei ma si compie senza alcuna giuda, senza alcun Virgilio, entrando invece direttamente nel corpo dei dimenticati, degli invisibili, degli scarti umani. «Quando guardi nell’abisso, l’abisso guarda in te», diceva Nietzsche e in questo romanzo-poema si ritrova spesso la nozione di abisso, il pensiero abissale, scomodo, della tragedia umana.

Se c’è una pecca è proprio questa scissione platonico-cristiana tra anima e corpo, all’origine dell’isteria della storia moderna, all’origine del concetto di colpa e punizione. Anima in questo caso è però da intendersi non come metafora melensa per parlare del proprio malessere personale ma come spirito perché questa è la forma che l’autore ha dato al suo protagonista. Bisogna dire che il linguaggio oracolare, un po’ da sermone, è una forma molto pericolosa, si può correre il rischio di cadere involontariamente nel comico. Dunque non tutti possono farlo, anzi adoperarlo è sconsigliabile nella maggior parte dei casi. Esistono diversi modi di scrivere e di tentare l’accesso alla bellezza, che è poi il contrario dell’evasione, è la visione diretta di ciò che fa male. Il male di Santarossa è un pugno nello stomaco e in questo risiede la sua bellezza.

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