Andrea Porcheddu
Ancora sul teatro occupato

Il Valle e i mostri

La forzatura della "normalità" è vissuta come un pericolo, come uno corpo estraneo che si insinua nelle abitudini del nostro teatro. Eppure tutti siamo d'accordo che la situazione è "mostruosa" e che le regole sono da cambiare. Allora, perché non vivere il "caso-Valle" come un'occasione?

Sono rari, i casi, nella storia recente, in cui il Teatro è finito in prima pagina. Non se ne parla più tanto, se non in  trafiletti o nelle pagine finali dei quotidiani. Ma ci sono stati casi, “eventi” o “fatti”, che hanno suscitato l’attenzione, scaldato gli animi, spinto assopiti commentatori a prendere posizione. Ricordo il finto “scandalo del cavallo”, a una Santarcangelo di mille anni fa, con i Magazzini (allora Criminali) alle prese con il mattatoio; oppure ricordo, più recente, lo “scandalo dell’astice” di Rodrigo Garcia… Oggi si parla, tanto, del Teatro Valle. Ed è notevole la mole di attacchi, di prese di posizione, di accuse, di rivendicazioni. Un’acredine mai vista prima, quasi che il Valle fosse il peggiore di tutti i mali.

Ne ho già scritto (su linkiesta.it) ma le belle parole spese da Nicola Fano su queste pagine mi spingono a tornare sull’argomento, che vorrò ampliare, sviluppare e strutturare nella prospettiva di un convegno che si farà, a giorni, al Laboratorio Olimpico di Vicenza, sul tema “il teatro che cura”.

Mi piace, dunque, per questa riflessione, appoggiarmi alle notevoli considerazioni di Massimo Recalcati (in due libri recenti come “Patria senza padri”, con Christian Raimo, e “Il complesso di Telemaco”) e di Roberto Esposito (“Communitas”). Insomma, vorrei seguire l’approccio psicoanalitico dell’uno e filosofico dell’altro per tentare, ancora una volta, di ragionare – in modo confuso, certo – attorno a quel che sta accadendo. Senza fare il “tifoso”, pro o contro una bandiera; ma anzi soffermandomi di più sul valore eminentemente “simbolico” e addirittura “curativo”, dell’occupazione del Valle.

Vorrei intanto illuminare una contraddizione di fondo: sono in molti ad accusare i “comunardi” di non rispettare quelle leggi (da tutti ritenute eccessive o addirittura inique) che  regolamentano la vita teatrale, tanto da operare in una forma di concorrenza sleale. Vigili del Fuoco, sicurezza, e via dicendo: stanno appesantendo, anche economicamente, fino alla paralisi, tanti esercenti e tante strutture. Il paradosso, insomma, è che quelli del Valle hanno messo in mostra l’assurdità di quelle norme, e gli altri (gli altri che operano con merito e con grande fatica nella legalità, lo ricordiamo sempre) si fanno difensori di un sistema che loro stessi detestano e che li strozza. Dunque non dicono: “è vero, sono norme ingiuste, chiediamo tutti assieme allo Stato di modificarle”, ma dicono “sono norme ingiuste, io le patisco, devi patirle anche tu”. Mi sembra un approccio curioso: se il teatro facesse sistema, probabilmente quelle norme potrebbero essere rimesse sul tavolo della trattativa (tanto più ora, con un ministro attento come Massimo Bray).  E invece, il solito “mal comune, mezzo gaudio”, e al ribasso, insomma, con buona pace dei miglioramenti possibili. Mentre si sta per annunciare la nuova stagione del teatro occupato, si tratterebbe, al contrario, di far tesoro di questo madornale errore, di questo conclamato “fallimento”. Cogliere gli spunti, gli stimoli, i temi, le contraddittorietà che sono emersi da due anni di occupazione.

Di fatto, dunque, il caso Valle è l’apertura di una falla nel sistema, è il passo “illegale” che si oppone alla Legge. È il gesto che ha scosso la normalità operando una rottura. È un gesto, l’occupazione, che, seguendo Recalcati, può essere letto come “traduzione simbolica della violenza erratica”. Ossia vi è un effettivo ed evidente passaggio “all’atto”, da parte di un gruppo, illegale ma non violento: un gesto al tempo stesso reale, contrario alla legge, eppure simbolico perché rientra nella sfera del politico. Un gesto che, se posso dare una lettura così tendenziosa delle parole del noto psicoanalista, non è psicotico dal momento che è in grado di esser soggettivato, poiché la scarica violenta verso l’esterno (come è quella, che so, dei Black Bloc) si mantiene all’interno di un “discorso” che gli occupanti stessi auspicano condivisibile e dialettico. È quello che Recalcati rubrica come Acting Out: il gesto rimane in rapporto con l’Altro, esige di essere interpretato. Ed è, in definitiva, un esercizio simbolico della “traduzione”, ovvero una pratica democratica del desiderio (la pulsione dell’Es che ti dice: “spacca tutti i teatri” o le ingiunzioni ipermorali repressive del Super io, che ti dicono “aspetta il nuovo direttore e raccomandati a lui”).

Quel gruppo, entrando nel Teatro Valle, ha dato un segnale preciso al sistema teatrale. Non ha occupato un capannone di periferia, non ha messo in scena uno sciopero. No: è entrato nel sistema, in uno dei simboli del sistema, per dire, aspramente, ci siamo anche noi. Un “attacco al cuore dello stato” che ha dato risposta all’urgenza del Desiderio (altra categoria analitica) a fronte della Legge. “Dove c’è una comunità umana – racconta Recalcati a Raimo – c’è istanza del desiderio e c’è programma della civiltà che tende  a disciplinare quest’istanza sovversiva e questi due movimenti non sono conciliabili armonicamente, generano sempre dissonanze conflittualità inevitabili”. Così, il Valle si è mutato in un corpo estraneo, esterno, in una spina nel fianco, in un oggetto e soggetto di polemica, addirittura di odio, a leggere gli articoli di alcuni giornali o molti post. Dice Fano che parlare del Valle serve a distrarre dai reali problemi della cultura in Italia. È verissimo.

Il Valle è diventato un “nemico interno” da allontanare in fretta (lo sgombero coatto) per ristabilire la normalità, ossia la Legge. Allora, in questo caso, mi domando se è proprio la “normalità” quella cui aspiriamo: certo, questo Paese ne ha tanto, ma tanto bisogno. Eppure non riesco a identificare nel Valle un “cancro” a un sistema “sano”. E se, dopo lo “sgombero” quel teatro andasse, che so, tanto per fare un esempio, a Gigi Proietti, che di teatri a Roma ne gestisce già tre o quattro, sarebbe una “normalità” auspicabile?

Ma tutta quell’acredine diffusa mi è sospetta anche per altro. Scrive Recalcati: “Allontanare il nemico interno all’esterno, questa sua esteriorizzazione, è il fondamento della paranoia (…) Potremmo dire che la dimensione fondamentalista dell’odio consiste proprio nel fatto che noi attribuiamo proiettivamente l’impurità all’Altro anziché soggettivare la nostra”. E ancora: “L’odio è una passione per il confine, nel senso che è una passione che finisce per irrigidire il confine, per fare del confine cemento armato, fascio, lega, per fare del confine qualcosa che non si può più attraversare. In questo caso il confine perde la sua porosità per inspessirsi, per irrigidirsi, esso non funzione più per differenziare la mia identità, ma per escludere quella dell’Altro”. Allora mi viene da pensare che il Valle Occupato sia diventato l’Altro, lo straniero che è entrato (illegalmente) in un sistema ordinato, chiuso, spesso, dominato da quelle lobby di cui scrive – con invidiabile coscienza – Nicola Fano su questo giornale.

Per questo, l’occupazione del Valle ha valore simbolico: perché un gruppo di – chiamateli come volete – disoccupati, figli di papà, raccomandati, precari, opportunisti, fancazzisti, coglioni, furbetti, ha osato l’inosabile, rompendo le gabbie del sistema, ossia infrangendo la Legge. E sono, di fatto, un corpo estraneo che si è impiantato in un organismo svelandone lo stato di cancrena, mostrandone, apertamente, la malattia degenerativa.

Recalcati cita quel bel libro di Jean Luc Nancy, “L’intruso”, in cui il filosofo francese parla del trapianto di cuore: affinché il trapianto diventi possibile, non crei crisi di rigetto, affinché esso riesca a istallare un nuovo organo all’interno del corpo, è necessario che la difesa immunologica dell’organismo si abbassi, riduca la sua forza protettiva; se questa riduzione non avviene, se non c’è un abbassamento della difesa immunologica, non c’è possibilità di trapianto, non c’è politica di ospitalità.

E qui si ricollega al raffinato lavoro di Roberto Esposito, che ha sviluppato potentemente quel paradigma “immunologico”, e ha mostrato come i gruppi, le istituzioni, le società a volte si ammalano per eccesso di difesa immunitaria: “Quello che dovrebbe proteggere la vita, in realtà, diventa ciò che la distrugge. Il sistema teatro, insomma, sembra reagire con eccesso di difesa”. E dunque perché il sistema teatro reagisce in modo così aspro all’occupazione del Valle?

Forse perché, semplicemente, quella del Valle – come altre iniziative in tutta Italia – stanno là a dimostrare che la giostra è rotta, che il giochino del teatro, come era stato creato sessanta anni fa, non si muove più. Possiamo fare ancora finta di nulla, attendere sereni le nomine politiche per le nuove poltrone, auspicando che vada tutto bene (come ad esempio è successo a Palermo). Possiamo mettere pezze ancora a lungo per tamponare le parti malate.

Ma invece qui qualcosa si è mosso.

Sarà la condizione perenne di precari, sarà lo scontro generazionale, sarà una rinnovata voglia di prendere posizione, eppure ci sono segni di cambiamento di cui l’occupazione del Valle (possiamo essere d’accordo o meno) è il più efficace e contraddittorio.“L’assenza di lavoro e di prospettiva – afferma Recalcati parlando con Christian Raimo – ha a che fare proprio con questa condizione smarrita della soggettività ipermoderna (…) Il conflitto organizza, per certi versi, la violenza in modo simbolico. Nel nostro tempo, invece, siamo di fronte alla violenza senza conflitto. Lo si può vedere nei giovani: una violenza erratica che non si aggancia al conflitto e non vi si aggancia per diverse ragioni. Tra queste vi è la sempre maggior difficoltà (…) che la generazione dei padri sappia sopportare il confronto con la generazione che viene dopo”. E ancora: “La straordinaria plasticità del discorso del capitalista ha ridotto le sedi del conflitto perché ha assimilato gli antagonismi di classe dentro una identificazione collettiva conformista: è più desiderabile essere un consumatore adattato che non un nemico del sistema. (…) La plasticità del discorso del capitalista ha fatto diventare la stessa critica un suo fenomeno interno, come se no ci fosse più un “fuori”, come se non esistesse più esteriorità alcuna rispetto a questo discorso. Da qui la difficoltà a poter pensare a un conflitto autentico”.

Ecco l’alternativa possibile (ma rivoluzionaria!) del Valle Occupato, soprattutto nel momento in cui si pone come Fondazione: ossia diventare soggetto di dialogo intergenerazionale al sistema. Ovvio, allora, che si auspichi – a destra come a sinistra – lo sgombero, il ritorno alla Normalità: perché una azione decisa in tal senso negherebbe, alla fonte, il possibile dialogo, il confronto con una possibilità “Altra” del sistema (possibilità contraddittoria, perfettibile, manchevole, piena di errori e falle, eppure esistente).

Insomma, un eventuale sgombero avrebbe come esito inevitabile il rafforzamento della Norma, della Legge, ossia del morituro sistema teatro, mettendo definitivamente a tacere voci diverse (ancorché illegali): come ricorda Roberto Esposito “annullare le differenze delle lingue nel corpo compatto della “volontà generale” darebbe luogo a una tirannide”. Tirannide è parola grossa, va da sé, per una forma democratica, legale e aperta come è quella del sistema teatro italiano. Ma mi sembra che il concetto sia chiaro: se il teatro è un “sistema modellante” (ce lo ricordano Goffman e Dauvignaud) forse dobbiamo tenerne conto anche in una prospettiva meta-teatrale.

C’è poi un altro elemento che voglio affrontare: lo “scontro” generazionale. Ho fatto cenno al precariato. Ma non è solo questione di posti di lavoro, che pure contano. Nel teatro, come nella politica, o in tanti altri settori di questo Paese, ci troviamo di fronte a una generazione di “padri” che non vuole rinunciare, non vuole guardare al naturale tramonto e non accenna a abbandonare la scena. Politici che, nel mito dell’eterna giovinezza, non esitano a esaltare il presentismo, rinnegano ogni memoria e ogni futuro: si fidanzano con fanciulline di quaranta anni più giovani, si ritoccano, s’impongono ovunque come modelli. Contro questo iperedonismo del godimento illimitato e continuato, le occupazioni (e tante altre prassi di lavoro sul territorio, sopratttutto nel settore teatro in genere: basti pensare al teatro ragazzi, al teatro sociale o alla formazione) sono un gesto di resistenza, di contro tendenza, di azione quotidiana di cambiamento e miglioramento del microcosmo in una prospettiva futura. Sono pratiche dell’ascolto e del confronto, anche estenuante, anche violento o sbagliato, rispetto all’imposizione violenta ancorché sorridente dell’Io. Si tratta insomma di reinventare il godimento, abbandonando la frenesia edonista o solipsista di questi tempi bui e puntare a qualcosa di più radicale e profondo, di più costruttivo e condiviso.

E, in questa prospettiva, dice ancora Recalcati: “La tesi fondamentale dell’etica secondo Lacan: c’è una sola colpa che gli umani possono commettere ed è quella di voltare le spalle al proprio desiderio. (…) La cosa che più colpisce è vedere che il sintomo più diffuso tra i giovani, al di là della depressione, l’anoressia, il panico, le droghe, sia il fatto che sono senza desiderio. Il disagio della giovinezza prende questa forma della vita come turacciolo passivo, inerte, sballottato dalle onde del godimento”. Per Recalcati, dunque, la gioventù sostanzialmente si perde nella deriva della musica, negli spinelli, nel vivere malamente il sesso e corpo, complice una generazione di padri che non si è assunta l’onere e l’onore di aprirsi: e dunque cosa ha fatto la generazione precedente? Perché non ha dato spazio, perché non ha ascoltato la nuova, se non per misere e minime concessioni? Se ci fosse stato un sano passaggio di testimone tra generazioni, ci sarebbe stato il caso Valle?

Come non chiedersi, poi, quale Legge stiano trasgredendo gli occupanti? Certo, il codice penale. Ma poi? È solo una questione delinquenziale? Qui – come altrove, come in tante iniziative simili – abbiamo una generazione che si muove, che prende in mano la propria sorte e fa qualcosa. Una controcultura che si muove: se penso alla fine che hanno fatto i tanti movimenti che si erano attivati negli ultimi anni (la pantera, i girotondi, i primi due che mi vengono in mente) vedo che tanto entusiasmo si è stinto e dissipato in nulla. Magari ha dato visibilità e affermazione a qualcuno, ma le ragioni profonde che avevano mosso quelle azioni sono state come sedate, attenuate, offuscate dalla prassi, e dalla normalità. Allora qui ci troviamo di fronte a un bivio: o accettiamo e consideriamo questo nuovo movimento, come qualcosa di serio, come un “ritorno al politico” dopo decenni di distrazione di massa, oppure constatiamo la velleitarietà, l’inefficacia, il sostanziale fallimento di un tentativo, e incoraggiamo lo sgombero coatto.

Questi occupanti, dunque, per citare ancora Recalcati, non sono “nella posizione di un Telemaco furioso perché nessun padre ha mai risposo al suo appello? (…) Telemaco non sta fermo ad aspettare. Sarebbe una posizione solo nostalgico-melanconica. Aspettare che arrivi il padre ideale che può salvarci. Ma come dice Heidegger, nessun dio ci può salvare. Telemaco è il giusto erede perché interpreta l’ereditare come movimento di riconquista. Egli si muove, rischia la sua vita, ripercorre le orme del padre. Si mette in viaggio e questo movimento lo porta ad assumersi nuove responsabilità”.

Allora serve ascolto, non sgombero. Serve una rinnovata dialettica democratica, non il manganello. Serve che il sistema si apra, che sappia ascoltare e confrontarsi con le istanze che vengono dalla collettività e da ogni singola individualità. Dal Valle come da altrove. Se perdiamo questa occasione, rischiamo di riparlarne tra altri sessanta anni. Il teatro può dare il segno di un nuovo modo di concepire la società, con una ridimensionata presenza della politica, con una maggiore dialettica democratica, con un effettivo e non traumatico ricambio generazionale. Questa è, forse, solo una piccola parte della partita che si sta giocando, alle spalle di quegli occupanti.

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