Sebastiano Bucci
Lettera dalla Slovacchia

Ubu re di Bratislava

Nel cuore della vecchia Europa la cultura è in fermento; molto più che da noi. Così può capitare di incontrare la follia di Jarry, aggiornata al clima di Bratislava dove il post-comunismo è lontano da tutte le mode

Ho conosciuto Pavel a una serata organizzata dall’associazione con cui sto lavorando a Bratislava da circa un mese; 20 anni, zazzera fluente e occhi vispi, si distingue dalla maggior parte dei suoi coetanei. Di solito i ragazzi qui all’università tendono a studiare materie come economia e ingegneria, mentre questo esemplare atipico di slovacco ha come citazione permanente su Facebook una frase di Bertolt Brecht. Mi chiama nel tardo pomeriggio di una giornata abbastanza anonima, che passo alla disperata ricerca di una connessione wifi nel casermone post-sovietico nel quale abito. Non vuole svelarmi i piani della serata, ma mi da appuntamento allo Slovak Pub per maggiori informazioni. Bratislava è una città estremamente piccola, e pur essendo distante il mio quartiere-dormitorio una decina di chilometri, con l’efficiente (e sorprendentemente pulito) servizio bus raggiungo in poco tempo lo Stare Mesto (“Quartiere Vecchio” e parte storica della città). Arrivo in pochi minuti in via Obchdona 62, superando la folla in fila per il classico shopping domenicale.

Il mio amico mi aspetta in maniche corte (visti i 15 gradi presenti mi guardo bene dal togliermi il mio golfone a rombi) e con una pinta di Zlaty Bazànt, la birra nazionale (venduta al boccale a 1 euro e quaranta centesimi). Davanti a un piatto di halusky fumanti (gnocchi ripieni, particolarmente colmi d’aglio) mi piazza lì la proposta spiazzante: andare a vedere l’Ubu Re rigorosamente in slovacco.

Un colpo sinceramente inaspettato; per chi non avesse confidenza con l’opera di Jarry, uscita nel 1896, la sola visione in lingua italiana mi ha sollevato parecchie perplessità. Come avrei potuto entrare davvero in contatto con uno spettacolo che oltre a essere caleidoscopico e bizzarro nella mia lingua d’origine, potrebbe sorvolare verso i confini dell’assurdo in una lingua che assolutamente non è mia?

Mi son deciso ad andare e ho passato due ore divertenti, frizzanti, abbandonandomi completamente alla follia d’un opera fuori da qualsiasi schema: è come fare un giro di giostra dopo avermi bevuto in maniera abbondante. Surrealista prima dei surrealisti, creatura finita ma mai completamente realizzata (la lunga gestazione iniziava addirittura nel 1890, ispirata dalla figura del professore di fisica del liceo di Jarry), unicuum grottesco che sfocia ripetutamente nella farsa.

Due ore di salti, ruzzoloni, corse, rumori non attutiti, citazioni shakespeariane necessarie (tra cui il famoso “Merdre” che riprende gli scherzi linguistici di Rosencratz e Guildestern) nelle quali assistiamo con trasporto alle vicende di Padre Ubu, “capitano dei dragoni, officiale di fiducia di re Venceslao, decorato con l’ordine dell’aquila rossa di Polonia, ex re d’Aragona, conte di Sandomir” e al suo tentativo di mantenere il potere. Due ore che letteralmente volano, in un opera che magari è stata essa stessa più grande del suo autore (che oltre lo scandalo, non riuscirà mai realmente a ripetere il successo) ma dopo più di cent’anni mantiene intatto il suo brio e la sua spontaneità. Nonostante la lingua.

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