Andrea Porcheddu
Maria Grazia Sughi, del Teatro di Sardegna

L’Isola del teatro

La cultura (anche teatrale) di un luogo è sempre parte integrante del tutto: dalla vita quotidiana alla stessa idea di nazione. "Cercare un nuovo linguaggio significa cercare un modo per continuare a esprimente un'identità!"

Ha la verve di un’attrice di carattere, ha lo sguardo di una donna appassionata di teatro: Maria Grazia Sughi calca le scene da tempo, ma da qualche stagione è stata nominata Presidente del Teatro Stabile della Sardegna. In questa veste, si è messa a capo di una lenta, ma determinata trasformazione del teatro cagliaritano. Con Guido De Monticelli, direttore artistico, la Sughi ha raccolto le forze della cooperativa privata – fatta di attori, tecnici, amministrativi – che ha preso le redini del Teatro Massimo, un bello spazio centrale, e ne ha fatto la sede dello Stabile. In questa fase di necessaria trasformazione del teatro pubblico e privato, confrontarsi con l’esperienza di una donna che ha vissuto in prima persona la fatica e la gioia della scena, vuol dire cogliere un punto di vista “interno”, un attraversamento della politica culturale improntata ad una sapienza profonda, e a una visionarietà che non è astratta, ma estremamente determinata.

Allora, Sughi, come va lo Stabile di Sardegna?

Secondo me va benissimo: perché dobbiamo guardare a quanto facciamo e a quanto abbiamo in mente di fare. E pure avendo i piedi nella realtà, altrimenti guai, bisogna essere un po’ visionari. Se non hai una visione del futuro del teatro a Cagliari e in Sardegna, tenere aperti questi spazi diventa un lavoro solo pesante. La realtà qui, forse più che altrove, è molto dura, soprattutto dal punto di vista economico e finanziario: i soldi non ci sono più. E noi, che in definitiva dipendiamo dagli enti pubblici, abbiamo subito tagli da tutte le parti: tagli non forti, va detto, ma solo perché prendiamo già poco in termini di finanziamento. Noi siamo quelli che, in Sardegna, prendono meno: siamo il gruppo meno finanziato. Ma non voglio fraintendimenti: non dico che gli altri prendano troppo, anzi, semplicemente che noi, rispetto al lavoro che facciamo, prendiamo davvero troppo poco. E non mi piace. Anche a livello nazionale: siamo una cooperativa, un teatro privato e non pubblico. Il contributo Mibac, di 400 mila euro circa, ci serve solo per pagare il personale.

Come sono i rapporti con le altre realtà teatrali di Cagliari?

Cerchiamo di aprirci anche agli altri, di fare progetti comuni. Abbiamo iniziato un dialogo nuovo, sistematico, con tutti gli altri gruppi, come non è mai stato fatto in Sardegna. Penso, ad esempio, ad una bella iniziativa fatta con il gruppo Cada Die: “Oscena Festival”,una piccola rassegna di teatro di ricerca, che è andata molto bene e ci piacerebbe rifarla. Se la prima edizione era dedicata a scoprire il nuovo teatro della Lombardia, vorremmo replicare aprendo i nostri spazi alle migliori produzioni di un’altra regione d’Italia: e decideremo assieme alla direzione del Cada Die. Guido De Monticelli ha incontrato tutti i gruppi della regione. E da questa indagine è emerso un progetto di residenze che ha dato un bel frutto: una bella residenza, lo spettacolo Alcatrax, appunti di fabbrica, fatto alla cartiera di Arbatax, con la regia di Susanna Mameli, giovane regista che ha firmato un lavoro egregio.

Mi sembra interessante sottolineare questa apertura alle giovani generazioni…

È un percorso necessario e vitale. Che si declina anche nei numerosi laboratori che facciamo, o nel dialogo concreto che abbiamo cercato e instaurato con l’Università. Anche nel recente spettacolo Peer Gynt, diretto da De Monticelli, abbiamo coinvolto la facoltà di Archiettura per l’ideazione e la realizzazione della scenografia, quella di Lettere e Filosofia per un approfondimento teorico e drammaturgico… Queste iniziative sono importanti, perché, al tempo stesso, portano anche a un naturale rinnovamento tra gli abbonati.

A Cagliari si avverte voglia di teatro?

Assolutamente sì. Il pubblico risponde molto bene alle nostre proposte. Ma non dobbiamo smettere di interrogarci sulle funzioni di un teatro Stabile. Per quel che mi riguarda, vengo da una lunga esperienza di palcoscenico: ho lavorato con le maggiori compagnie italiane come attrice. Ho visto e frequentato tanti teatri. Oggi posso dire che, secondo me, uno Stabile deve essere proprio la casa delle giovani generazioni. È questa la missione prioritaria: coltivare nei giovani la voglia di teatro. Dobbiamo assumerci il compito di educare le nuove generazioni al teatro, inteso come il luogo in cui uomini e donne fanno qualcosa per dare il loro contributo alla società. E non è poco. In questi quattro anni, da quando siamo al teatro Massimo con un nuovo Cda, abbiamo cercato proprio di percorrere questa strada. Non c’è stata continuità con il passato, stagioni in cui c’era un direttore artistico e un primattore famoso che facevano programmi seguendo una linea di teatro completamente diversa. La nostra strada è forse molto più rischiosa, ma guarda al futuro. Fondiamo tutto sulla centralità del gruppo: non ci siamo avvalsi di nomi famosi che possano aprire le nostre produzioni al “mercato” nazionale. Non so quanto resisteremo, in questa linea. Certo, non siamo né vogliamo essere una riserva indiana: ben vengano i grandi attori, se servono. Ma è l’ensemble, il nostro ensemble, molto importante. Il Berliner, in questo senso, è ancora assolutamente un modello. Certo, loro hanno altri budget… Quel che ci preme, dunque, è il rapporto del nostro gruppo con la città, con la società che ci circonda, e con il futuro dei giovani sardi.

In questa prospettiva, mi sembra importante anche l’attenzione data alla cultura sarda…

Compiamo quaranta anni, come Stabile della Sardegna. E facciamo tutto come Teatro della Sardegna, per la cultura sarda. Quest’anno vorremmo fare uno spettacolo, dal titolo Baranta, ovvero quaranta: che sono i 40 anni non solo del teatro, ma anche una visione di 40 anni di vita in questa terra e in questa cultura. Ci siamo rivolti a molti autori, scrittori, giornalisti, da Marcello Fois a Michela Murgia, per scrivere un testo breve, un “corto teatrale”. Questi testi saranno affidati a tre registi che hanno fatto parte della nostra storia: Guido De Monticelli, naturalmente, che coordina il progetto; Beppe Navello, e Francesco Brandi. Sono “corti” sulla Sardegna. Siamo ancora in attesa di capire quali saranno i finanziamenti di questo progetto, che vorremmo di ampio respiro: ma la Regione non ci ha ancora  risposto su questa ipotesi di lavoro….

E quali sono i rapporti con il Comune di Cagliari?

Il Comune ha messo a bando il teatro Massimo. Avrebbe forse potuto fare l’affidamento diretto, ma per ragioni di trasparenza ha deciso di procedere tramite bando. Noi rispettiamo questa decisione e naturalmente abbiamo partecipato, sperando di ottenere ancora la gestione di quella che consideriamo la nostra “casa”. Il progetto che abbiamo presentato è davvero meraviglioso: abbiamo pensato a un progetto dal respiro di almeno sei anni. Ora aspettiamo l’esito del bando.

Cosa vuol dire essere attrice in Italia? Come è cambiato questo mestiere?

Non credo sia cambiato. È il mio mestiere: presidente di un teatro possiamo esserlo tutti, e lo siamo. In questo teatro tutti siamo presidente: dal responsabile ufficio stampa, all’ufficio scuola, all’amministrazione. Fare il presidente di uno Stabile non è straordinario, straordinario semmai è fare l’attore. Ma se mi si chiede cosa voglio fare nella mia vita, adesso, rispondo tranquillamente che voglio fare proprio quello che sto facendo: occuparmi del nostro teatro, vedere i miei compagni di gruppo così luminosi, belli, brillanti, bravissimi, contenti, gioiosi. C’è una nuova giovinezza, nel gruppo, che mi rende felice. Allora non penso tanto a fare personaggi, non penso troppo a andare in scena. Penso a quanto sto facendo.

Ma cosa è il teatro in Italia oggi?

Anni fa, quando venivano i giovani a chiedermi consiglio su che cosa fare per diventare attori, li scoraggiavo. Dicevo loro di scegliere altro, di fare altro e non questo mestiere cosi precario. Ma oggi rispondo diversamente. Oggi è tutto precariato! E siccome siamo noi attori a aver inventato questo modo di vivere precario, allora tanto vale fare teatro, tanto vale vivere la passione. Chi ha la passione per il teatro, lo faccia! Ci sono tanti modi, anche modi più autonomi, indipendenti, creativi di inventarsi il teatro. Ma ormai sconsigliare a un giovane di fare teatro è sbagliato. Abbiamo capito che tutto è così instabile, precario, ma che la vita è così dinamica, che è meglio fare le cose per cui siamo felici.

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